C’era una volta la “terra degli slavi del sud” e c’era una filastrocca che l’accompagnava sempre che faceva più o meno così:
La Jugoslavia? “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”
Quest’ultimo, autentico simbolo vivente della Jugoslavia, fu per alcuni un architetto in grado di tenere unite nazioni differenti attraverso una personalità che a giudizio di altri invece, troppe volte sconfinò nella dittatura e nella repressione.
Dato uno scenario simile, la storia che stiamo per raccontare non poteva che essere caratterizzata in senso totale da un sentimento di unione e di fratellanza interrotto per sempre all’ombra delle bombe che dilaniarono la Jugoslavia a partire dagli anni novanta.
Protagonisti di questa storia due tra i più illustri cestisti mai prodotti dal movimento balcanico, uno croato, l’altro serbo, Drazen Petrovic e Vlade Divac.
Drazen Petrovic ha un talento innato che unito ad una maniacale voglia di perfezione, gli permette di dirigere sinfonie uniche sui parquet di tutta Europa al punto da meritarsi il soprannome di Mozart dei canestri.
A Sebenico, dov’è nato nel 1964, ha le chiavi della palestra, si sveglia ogni giorno alle sei del mattino, sistema le sedie sul parquet e inizia a palleggiare, la leggenda vuole che non abbandoni mai l’allenamento senza aver consumato una razione quotidiana di 500 canestri. E’ determinato e il successo non tarda ad arrivare con le maglie del Cibona Zagabria e del Real Madrid, ma ancor più con quella azzurra della Jugoslavia.
Nei ritiri della nazionale gli viene affiancato un compagno di stanza che sembra essere l’esatto opposto di Drazen. E’ un ragazzone di 2,16 che milita nel Partizan di Belgrado, il suo nome è Vlade Divac. I due si completano alla perfezione, Vlade è un burlone, Drazen un introverso, fissato in modo quasi paranoico sul basket e poco altro.
A completare il quintetto base della nazionale ci sono Toni Kukoc, Zarko Paspalj e Dino Radja, giocatori in grado di coniugare ottima tecnica individuale e grande personalità. Sono serbi e sono croati, ma appartengono ad una generazione che ha avuto la fortuna di vivere nella pace e si vede. L’affiatamento che dimostrano quando scendono in campo è tale da renderli pressoché inarrestabili.
Dopo aver vinto l’argento olimpico a Seul ’88, l’Europeo di Zagabria dell’89 è un vero e proprio show. Vincono tutte le partite con una facilità disarmante, dando l’impressione di vivere davvero un momento spensierato e di parlare una sola lingua, quella universale del basket.
Talmente universale che i confini europei stanno ormai stretti a Drazen e Vlade.
E’ giunto il momento di realizzare il grande sogno americano targato NBA. Il primo finisce a Portland, il secondo a Los Angeles sponda Lakers, alla corte di sua maestà Magic Johnson.
Ma a differenza dell’amico serbo, Drazen non riesce a superare inizialmente il muro della diffidenza americana verso i giocatori europei piombando così in una crescente frustrazione dalla quale Vlade prova a farlo uscire. Tutte le sere lo chiama al telefono per dargli conforto e fargli capire che arriverà il suo momento e quando arriverà, lui dimostrerà anche a “quel” mondo la sua bravura.
Il rapporto tra Vlade e Drazen si rafforza sempre più, lo zenit giunge a Buenos Aires nel 1990 quando i due si laureano campioni del mondo con la maglia della nazionale dopo aver battuto in finale l’Unione Sovietica.
Ma proprio mentre stanno celebrando la vittoria più grande, accade l’imprevisto che segnerà in maniera decisiva la loro storia.
La partita è appena finita quando un uomo entra in campo tenendo in mano una bandiera tricolore, ma al centro della bandiera non c’è la stella rossa della Jugoslavia, ma lo scudo a scacchi rossi e bianchi, simbolo storico della Croazia, icona degli indipendentisti e dei nazionalisti spinti. Divac gli si para davanti ed evidentemente infastidito dalle parole dell’uomo ancor più che dalla vista della bandiera, gliela strappa dalle mani gettandola a terra.
La mia reazione non voleva dimostrare di essere contro qualcuno, volevo solo proteggere la mia squadra e far capire che eravamo la nazionale della Jugoslavia e non della Croazia, della Serbia o di un’altra repubblica
Così Divac spiega quel gesto nel bellissimo documentario Once Brothers (mai più fratelli) edito da Espn, un gesto istintivo basato su buone intenzioni, ma che strumentalizzato ad arte dai mass media diverrà presto il motivo della fine di una grande amicizia.
Petrovic interpreta quel gesto come politicamente offensivo e decide di tagliare per sempre i rapporti con Divac. Vlade lo chiama di continuo per scusarsi, per fargli capire che si sarebbe comportato allo stesso modo anche se si fosse trattato della bandiera della Serbia, Drazen non si degna nemmeno di rispondergli, non vuole sentir più parlare di lui e ogni volta che lo interrogano sul loro rapporto dà una sola risposta
Una volta eravamo migliori amici, ma ora non lo siamo più
La situazione precipita, con la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991 scoppia la guerra civile. L’esercito federale jugoslavo, divenuto esercito della repubblica serba si incarica della repressione, diverse città croate vengono attaccate, la stessa Sebenico non viene risparmiata.
Paradossalmente i due stanno vivendo il momento migliore della loro avventura in NBA. Drazen, nel frattempo trasferitosi alla corte dei New Jersey Nets, trova il minutaggio e la fiducia che gli erano mancati, Vlade trascina i Lakers fino alla finale per la conquista del titolo contro i Chicago Bulls di Michael Jordan.
Ed è proprio contro Michael Jordan che Petrovic guida da capitano la Croazia nella finale Olimpica di Barcellona ’92. Ai Giochi non viene ammessa invece la Jugoslavia. Se gli Stati Uniti sono una squadra di marziani, i croati sono i primi fra gli umani, ma un dubbio resta e resterà in eterno.
Come eterno resterà il sogno di Drazen di vincere il titolo NBA, proprio ora che è stato inserito nel terzo quintetto di stagione, primo europeo nella storia.
Di ritorno da una partita di qualificazione agli Europei giocata in Polonia, all’ultimo istante decide di non salire sull’aereo con il resto della squadra, ma sull’auto guidata dalla sua ragazza diretta in Germania per trascorrere qualche giorno di vacanza. Drazen si addormenta e non si risveglierà mai più. Un terribile schianto contro un tir stronca la sua vita a soli 28 anni. Lascia orfani la famiglia, di un figlio che apparterrà per sempre anche all’intero popolo croato e il basket, di un giocatore dall’immenso talento.
Ma soprattutto lascia il suo amico Vlade con una ferita che porterà dentro per il resto dei suoi giorni.
Non rivedrò mai più Drazen, non avrò mai la possibilità di parlargli, di spiegargli tutto e di riabbracciarlo come dopo le tante vittorie condivise insieme. Perché io lo so, l’ho sempre saputo, che sbollita la rabbia che una schifosa guerra ci ha fatto provare gli uni per gli altri un giorno sarebbe finita anche l’assurda freddezza e la distanza tra di noi. Invece non sarà più possibile, mai più.
Per costruire un’amicizia ci vogliono anni, per distruggerla a volte basta un secondo.