La forza della mente

“Avere gli spettatori dalla tua parte aiuta, ma se non è così devi trovare il modo di superare la difficoltà. Quando la folla gridava “Roger” io sentivo “Novak”. È allenamento mentale… e poi Roger e Novak sono simili!”

Roger Federer e Novak Djokovic stanno ancora giocando la loro epica battaglia di cinque set e cinque ore durante la finale maschile di Wimbledon. Sebbene si sia molto discusso sull’introduzione del tie-break in caso di 12 pari nel set decisivo, sono già trascorsi 253 incontri (di singolare maschile e femminile) dall’inizio del torneo e nessuno ha ancora richiesto l’utilizzo della nuova regola. Quante sono le probabilità che trovi dunque applicazione durante l’atto conclusivo, la partita 254?

In realtà era scritto nelle stelle che questa novità caratterizzasse proprio la partita più importante, un evento tra i più imprevedibili a cui molti di noi abbiano mai potuto assistere.

Eppure c’era chi aveva previsto tutto.

Novak Djokovic ha già giocato nella sua mente, prima di entrare in campo, i possibili scenari di questa finale.

Il serbo è da sempre un appassionato sostenitore dell’uso delle “immagini” prima della competizione. Ha iniziato la pratica fin da bambino: la sua prima allenatrice, Jelena Gencic, lo incoraggiava a visualizzare le proprie mosse sul campo ascoltando musica classica.

L’overture 1812 di Cajkovskij era una delle sue arie preferite e la Gencic gli disse che nei momenti critici avrebbe dovuto ricordare quella musica per sentirsi immediatamente più forte. All’epoca Djokovic aveva solo 12 anni – la sua Serbia era sotto l’attacco delle bombe – ma un giorno l’allenatrice gli fece sollevare un piccolo trofeo facendogli esclamare:

Sono Novak Djokovic, ho vinto Wimbledon.

Dopo aver battuto Federer a Wimbledon, Djokovic ha rivelato quanto confidi molto nella tecnica della visualizzazione. Una tecnica che gli ha permesso di “trasformare” il rumore di sottofondo dei 15.000 spettatori del Center Court che inneggiavano al suo rivale. Nella sua testa, ha spiegato, l’incitamento “Roger Roger” è diventato “Novak Novak”. “Sembra sciocco, ma è così”, ha dichiarato il serbo mentre il brusio riempiva la sala stampa. Novak è rimasto imperturbabile prima di concludere dicendo

“Provo a giocare la partita nella mia mente prima di andare in campo. Cerco sempre di immaginarmi vincitore. Penso che ci sia un potere in tutto questo.”

Djokovic non è il solo tra gli sportivi a praticare la tecnica della visualizzazione pre-gara.

Wayne Rooney, calciatore, cercava di immaginare quale fosse nei dettagli il kit da indossare il giorno della partita. Anche lui aveva lavorato sulle immagini, senza rendersene conto, sin da quando era un bambino.

“Per avere un “ricordo” ancor prima della partita”.

La tecnica della visualizzazione ha giocato un ruolo fondamentale anche per il ciclista Mark Cavendish. Il potente velocista studiava gli ultimi 10 chilometri di ogni tappa con ossessiva dovizia di particolari sostenendo di conoscere ogni singola buca di quel tratto finale di strada.

Affinava la tecnica giocando a Scrabble e a Sudoku ed era solito credere che il suo battito cardiaco nei momenti concitati della gara fosse più basso di quello dei suoi rivali proprio grazie al fatto che aveva già immaginato tutto quello che poteva accadere.

La logica di Cavendish potrebbe sembrare folle: in che modo il Sudoku può aiutarti in uno sprint al Tour de France? Ma questa teoria è supportata dalla ricerca.

Prima delle Olimpiadi invernali del 1980 a Lake Placid, ricercatori sovietici finanziati dal governo hanno testato gli atleti su quattro differenti programmi, che variavano dal 100% di allenamento fisico alla combinazione di 25% di allenamento fisico e 75% di allenamento mentale. I risultati suggerirono che maggiore era l’allenamento mentale, migliore sarebbe stata la prestazione. Uno studio del 1992 condotto su alcuni tuffatori dal trampolino ha poi dimostrato che risolvere problemi mentali astratti come i puzzle poteva essere molto utile a raggiungere il successo nelle proprie prestazioni.

L’utilizzo di queste tecniche non ha riguardato solamente atleti professionisti.

Uno studio del 2001, condotto dalla Cleveland Clinic Foundation in Ohio, ha scoperto che solamente pensando di compiere degli esercizi per i bicipiti, cinque volte alla settimana, per due settimane, i soggetti coinvolti hanno aumentato la propria forza del 13,5%.

Alcuni soggetti poi sono più bravi a visualizzare rispetto ad altri: spesso si ha un vantaggio se da bambino si avevano degli amici immaginari.

Inoltre, più dettagli si riesce a fornire – il rumore della folla, gli odori all’interno dello stadio, la sensazione di morbidezza del manto erboso – più decisive saranno le prove mentali.

Anche il gusto può essere un fattore: forse è per questo che Djokovic ha mangiato alcuni fili d’erba sul campo centrale dopo aver vinto.

Il giorno prima della finale di Wimbledon, Novak ha pubblicato una foto su Twitter

è l’alba, è scalzo, indossa solamente un paio di pantaloni da jogging e cammina attraverso un campo di erba alta accarezzandone gli steli.

Scrive:

#gladiator moment

Avremmo dovuto immaginarlo che dopo cinque set e cinque ore avrebbe trionfato lui.

Questo articolo è una libera traduzione da

“A little mental rehearsal is a huge help on sport’s biggest stages” by Tim Lewis (Sportblog – The Guardian)

Non giocare

Mancano poche ore alla partita di tennis più importante della mia vita: il quarto turno degli Us Open…durante il Labor Day…il compleanno di mio padre…sull’Arthur Ashe…sulla CBS…contro Roger Federer. Mi separano poche ore dal giocare contro il più grande tennista di tutti i tempi, per avere l’opportunità di ottenere il mio miglior risultato di sempre, in quello che è il mio torneo di tennis preferito. Poche ore mancano alla partita per cui ho lavorato e ho fatto dei sacrifici, per un’intera carriera.

Non posso farlo.
Non posso farlo, davvero.
Primo pomeriggio; Sono nella macchina che mi porterà ai campi di gioco. Sto avendo un attacco d’ansia.

In realtà, sto accusando diversi attacchi d’ansia- inizialmente, uno ogni 15 minuti ma poi uno ogni 10 minuti. La mia mente comincia a perdere il controllo. Sto andando fuori di testa. Mia moglie mi chiede: “Cosa possiamo fare? Cosa possiamo fare? Come possiamo migliorare la situazione?”
Io le dico la verità: ” L’unica cosa che mi fa sentire meglio in questo momento…è l’idea di non giocare questa partita.”
Lei esita, mi guarda per un secondo, per cercare di capire se fossi serio. Sono serio. Qui, non sono io che penso – sono io che reagisco, provo, cerco di sopravvivere. Lei mi risponde semplicemente: ” Bene, non dovresti giocare. Non devi giocare. Non giocare.”

Il mio disturbo d’ansia è cominciato nel 2012, durante quello che doveva essere il momento più alto della mia carriera. Ero alla fine di un lungo percorso – iniziato anni fa- e i risultati cominciavano ad arrivare. Nel 2009, qualcosa mi ha fatto aprire gli occhi, un punto di svolta. Fino ad allora, avevo avuto una bella carriera. Una carriera che, per molti versi, mi rendeva orgoglioso: avevo vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi del 2004, avevo ottenuto buoni risultati nei tornei dello Slam, avevo visto il mondo, fatto una buona vita. Nulla che, però, avesse un sostegno alla base.

Mi ero appena sposato, la mia prospettiva stava cambiando, crescendo. Proprio in quel momento, ho cominciato a ragionare come non avevo mai fatto prima…ho pensato che aver fatto una “bella” carriera non era abbastanza per me. Non ero finito. Volevo
ancora essere protagonista nel mondo del tennis. E la cosa più importante, adesso o mai più.

Ho cambiato la mia dieta, il mio stile di vita e, onestamente, tutto il mio modo di pensare. Sono passato da 91 chili a 78. Avevo trovato il mio “peso da combattimento”, non sapevo al 100% dove tutto questo mi avrebbe portato, ma sapevo che dovevo scoprirlo.
Nel 2010, ho cominciato ad ottenere i risultati. Ho battuto Andy Murray a Miami in due set – un risultato che non avrei mai potuto ottenere un paio di anni prima. Al Roland Garros, ero stato in grado di giocare due partite consecutive, da cinque set ciascuna- perdendo la seconda partita 10-8 al quinto dal numero 14 al mondo, Ivan Ljubicic, ma giocando ad un livello fisico mai raggiunto prima. Ho vinto due tornei di fila quell’estate, a Newport e Atlanta – battendo John Isner in finale ad Atlanta nel bel mezzo di un’ondata di caldo. Ho perso la finale a Cincinnati contro Federer per 6-4 al terzo, un match che avrei potuto facilmente vincere. Ho battuto Andy Roddick, il quale, in precedenza, mi aveva sconfitto per otto volte consecutive.

Il 2011 è stato anche migliore. Ho ottenuto i miei migliori risultati al Roland Garros e a Wimbledon. Superai Andy in classifica, uno dei miei migliori amici, e diventai il numero 1 d’America. E poi – forse la cosa più bella di tutte- sono entrato ufficialmente in Top10. Il 2012 era dietro l’angolo ed io ero numero 8 in classifica. Avevo raggiunto quello per cui avevo lavorato negli ultimi anni. Non ero più uno “degli altri ragazzi sul circuito” ma avevo raggiunto l’èlite.

Ed è in quel momento che cominciarono gli attacchi d’ansia. L’ansia è difficile da individuare in una prospettiva di causa-effetto, ma quando penso alla sua genesi, nel mio caso, un paio di cose mi vengono in mente.
La prima è che le mie aspettative cambiarono, sia esternamente che internamente, insieme alla mia classifica. La mia insoddisfazione con la situazione precedente – che era stata utile quando davanti a me c’erano 20 giocatori in classifica- era diventata stressante, distruttiva, ancor di più quando mi sono ritrovato ad avere davanti solo sette giocatori.
L’idea che non ero bravo abbastanza, ha avuto una grande influenza su di me – mi ha spinto, in un’età in cui la carriera di molti giocatori va’ a scemare, a dei risultati incredibili. Ma tutto è diventato anche difficile da controllare. Oggettivamente, stavo andando alla grande. E guardando indietro, avrei dovuto essere in grado di dirlo a me stesso. Ma andando alla grande, la mia mente non aveva avuto il tempo di elaborare quanto stava accadendo. Ero solo concentrato sul fare ancora meglio. E’ stata un’arma a doppio taglio.

La seconda cosa è che ho cominciato a soffrire di aritmie cardiache. Un’aritmia è fondamentalmente un malfunzionamento dell’elettricità intorno al cuore. Il mio cuore poteva “impazzire” e io non sarei stato in grado di gestirlo. E’ stato spaventoso. Mi sono preso una pausa e mi sono sottoposto ad una procedura correttiva chiamata ablazione, dopo la quale stavo apparentemente bene.
Quando sono tornato in campo quell’estate, durante il periodo di Wimbledon…in quel momento ho cominciato ad avere dei pensieri strani. Pensieri ansiosi. Era come se fossi preoccupato per qualcosa che stava per accadere ma poi non accadeva mai. Penso che dietro questi pensieri, ci fosse il trauma del problema avuto al cuore.
Avevo difficoltà a dormire. Non riuscivo a dormire da solo. Avevo bisogno di mia moglie, sempre. Dovevo avere qualcuno con me nella stanza. Fino ad allora, ero stato il ragazzo che amava stare da solo, viaggiare da solo, la solitudine. Quella sensazione di spegnere il telefono durante un lungo viaggio…mi faceva sentire in pace. Adesso, invece, non potevo più viaggiare da solo. I miei genitori hanno dovuto viaggiare con me. Avevo bisogno
di persone intorno a me, in ogni momento.
Nonostante tutto questo, ho continuato ad avere questi…pensieri. Questa ansia. Questa terribile confusione mi aveva consumato. E gli attacchi continuavano…sempre…peggio.

Ironia della sorte, non avevo alcun tipo di problema in campo. Riuscivo ad ottenere dei risultati: quarto turno a Wimbledon, quarti in Canada e Cincinnati. Stavo giocando bene. Questo problema esisteva solo fuori dal campo e si stava aggravando.
Questi pensieri continuavano ad essere lì, presenti, ed erano sempre più frequenti: da una volta o due al giorno, ad una manciata di volte al giorno e, a fine estate, ogni 10-15 minuti. Una volta tornato in hotel, su Google ho digitato “disturbo d’ansia”, “attacchi di panico”, “depressione”, ” salute mentale”, ma in realtà non sapevo nulla di tutto ciò. Non sapevo cosa fare. Non avevo la minima idea.

Almeno, mi sono detto, non mi accade nulla in campo. Poi, è successo in campo.
Era il 2012, fine estate. Dovevo giocare una match serale contro Gilles Simon – una testa di serie più alta di me ma stavo giocando bene. Mi sentivo fiducioso. Gli incontri notturni agli Open sono riservati alle partite migliori ma anche ai giocatori preferiti dal pubblico, a quelli che la gente vuole vedere.
Io ero uno di quelli. Dopo anni e anni trascorsi ad essere fuori da quella cerchia, ora ne facevo parte. Non stavo giocando la partita di qualcun altro. Stavo giocando “La partita di Mardy Fish”.
E’ stato speciale ma anche stressante. La partita è stata davvero emozionante. Sono stato al limite per tutta la partita: mi incoraggiavo, gettavo la racchetta e mi sentivo ansioso…angosciato.

Non dimenticherò mai quando sono stato vittima del primo, e unico, attacco di panico su un campo da tennis. Ero due set a uno, 3-2 nel quarto. Con la coda dell’occhio, ho guardato l’orologio. Ho visto che era l’1.15 di notte. Non so dire la ragione ma ne avevo abbastanza. E’ stato il campanello d’allarme.
La mia mente cominciava a precipitare in una bolla di pensieri: 1.15. O mio Dio, è tardi. Mi sentirò male domani. Stiamo giocando una partita lunghissima, devo ancora fare la conferenza stampa, poi lo stretching, devo mangiare, mi sentirò male…
Ad un certo punto, non riuscivo a controllare tutto questo. Non avevo idea di cosa mi stesse accadendo. Nessuna idea. Non ricordo nulla. In qualche modo, sono riuscito a vincere tre game di fila, il set e la partita. Ma non ricordo come.

Ricordo l’intervista post- partita. Justin Gimelstob mi stava intervistando, lui è un buon amico. Ricordo di averlo guardato in faccia, prima che cominciasse a parlare, dicendogli di sbrigarsi, di fare in fretta. Justin non aveva idea di cosa stessi parlando. Ma io continuavo a dirgli “Per favore in fretta. Ti prego sbrigati. Devo andarmene, devo lasciare il campo”.
Una volta che tutto questo era accaduto in campo, sapevo che nulla sarebbe stato più come prima. Poi due giorni dopo, tutto è tornato.

Eravamo in macchina, avrei dovuto giocare contro Roger- i miei pensieri erano pieni di terrore. Mi accadrà di nuovo in campo? Mi verrà un nuovo attacco di panico davanti a migliaia di persone? I pensieri continuavano a perseguitarmi, non si fermavano.
Continuavano ad offuscare la mia mente. Ero in una situazione molto brutta.
Mia moglie continuava a guardarmi e ripeteva: “Non devi giocare. Non devi giocare. Non giocare.”
La ascoltavo ma in realtà non la ascoltavo. Stavo pensando. Posso davvero non giocare questa partita? Non riuscivo a pensare ad altro. Ma, alla fine, ho prestato ascolto a mia moglie. Non giocare. Lo ricordo ancora in maniera molto viva. O mio Dio, pensavo…sto per non giocare questa partita. Non ho intenzione di scendere in campo di fronte a 22.000 persone.
Non voglio giocare contro Roger.
Non ho giocato contro Roger ma poi non ho giocato affatto.

Tre anni dopo, sono tornato agli Us Open per la prima volta. Penso che posso ancora giocare ad un livello molto alto, questo sarà il mio ultimo torneo. Dopo l’Open, mi ritirerò dal tennis.
Questo non è un film sullo sport, e certamente non ci sarà un finale da film. non andrò via, alzando il trofeo al cielo. Non vincerò il torneo. Ma va bene, perchè onestamente questa non è una storia di sport. Penso sia importante che la mia storia non sia in un libro di sport. Non ho “mollato la presa” nel secondo atto e non vincerò nel terzo atto.
E’ una storia di vita.
E’ la storia di un problema mentale che mi ha allontanato dal mio lavoro. Sono passati tre anni, e sto facendo questo lavoro di nuovo, e lo sto facendo bene. Sto giocando di nuovo lo Us Open.
E’ la storia di come, con la giusta educazione, la giusta mentalità, la giusta cura, si possa riprendere quanto lasciato in sospeso.
Decine di milioni di Americani, ogni anno, combattono con questo tipo di problemi relativi alla salute mentale. Può essere un problema che ti colpisce una volta o, nei casi peggiori, può essere una minaccia per la vita.
Io voglio aiutare con quanto ho raccontato.

Voglio rappresentare una storia di successo, a modo mio. E penso che ritirarmi alle mie condizioni, nel torneo che amo di più, lo sia.
Non è facile parlare di salute mentale nello sport. Non è una cosa percepita come mascolina. Veniamo allenati per essere mentalmente forti. Mostrare le proprie debolezze, ci viene detto, è vergognoso.
Ma io sono qui per mostrarvi le mie debolezze. Non mi vergogno.
Sto scrivendo questo proprio con l’obiettivo di mostrare debolezza. Sto scrivendo questo per dire alla gente che la debolezza va bene. Sono qui per dire alla gente che è normale.
La forza puoi dimostrarla sotto diverse forme.
Affrontare questo problema è forza. Parlare della tua salute mentale è forza. Cercare aiuto e cure, è forza.
E prima della partita più importante della tua carriera, la tua salute è la priorità. Anche questo, è forza.

Per quanto riguarda quello che verrà in futuro, non lo so. Ho 33 anni e so che non sarò bravo a fare qualcosa come lo sono stato giocando a tennis. Ma va bene.
Combatto ancora con la mia ansia ogni giorno. Assumo dei farmaci ogni giorno. E’ tutto ancora nella mia mente. Ci sono giorni in cui vado a letto e penso “Hey, non ho pensato al mio problema nemmeno una volta oggi. Ciò vuol dire che la giornata è stata davvero buona.”
Queste sono delle vittorie per me.

Non c’è alcun torneo per questo problema. Non ci sono quarti di finale, semifinali o finali. Non finirò questo pezzo con una metafora sportiva.
Perchè lo sport finisce con un risultato. La vita, invece, continua ad andare avanti.
La mia, spero, sia solo cominciata.

A tu per tu con la leggenda

La religiosa attesa addolcita dalle fragole con panna, l’avvio in salita, la prima interruzione per pioggia e l’incontro con Clerici, il miracoloso recupero e l’abbraccio con uno sconosciuto tifoso inglese sul punto che regalò il quinto…il mio racconto di Wimbledon 2008

Se pensare di varcare la soglia dell’All England Club può essere per un appassionato di tennis un desiderio prima o poi realizzabile, pensare di farlo nel giorno in cui è in programma la finale maschile di Wimbledon lo è già un po’ meno. Se poi nella finale si affrontano il numero 1 e 2 del mondo e uno dei pretendenti al titolo è il tuo giocatore preferito di sempre, allora siamo davanti a qualcosa di unico e indimenticabile.

All’alba di sabato 5 luglio 2008 un volo low-cost Bergamo-Londra mi proietta nell’atmosfera cool e glamour che solo questa meravigliosa città è in grado di offrire.

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L’appuntamento è fissato per le 14 al gate numero 5 di Church Road. Entro in un gabbiotto senza fare code che già mi sembra un privilegio e quando faccio il mio nome l’incaricata mi mette di fronte a una macchina fotografica. In meno di due minuti il mio facciotto è stampato su un pass grazie al quale potrò accedere al ground, praticamente tutta l’area di Wimbledon, compresa la famosa Henman Hill e 16 campi periferici, per il Centre Court bisognerà organizzarsi all’italiana anche se gli inglesi sono tosti per tradizione.

Ho sempre considerato questo posto come il Tempio Sacro del tennis, mi muovo con discrezione, estasiato alla vista dei primi campi verdi e anche se spelacchiati dopo due settimane di tortura, sentirne il profumo d’erba è un’esperienza sensoriale.

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Lasciato sulla destra l’ingresso principale del Centre Court costeggio l’edificio e imbocco il vialetto che piegando verso sinistra porta alla Henman Hill. Prima però è tempo di infilarsi su per le scale dell’impianto dove sta andando in scena la finale del torneo femminile, il derby tra le sorelle Williams, Venus vs Serena. Arrivato in cima attendo con pazienza che il gioco si fermi per chiedere alla guardia del servizio d’ordine la cortesia di farmi scattare una foto dall’interno. La guardia è gentile e mi fa accomodare, please.

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Provo una sensazione di stupore, sembra di stare affacciato da un balcone direttamente sulla storia e sulla tradizione di questo sport, tutto è luminoso, complice la bellissima giornata, tutto è in perfetto ordine, sobrio, in una parola, magico.

Dò un occhio al punteggio sul tabellone, Venus conduce 5 a 4, time, il gioco riprende, ringrazio la guardia e torno al mio posto. Sulla parete di fronte un poster gigantesco  ritrae il progetto della copertura che dal prossimo anno garantirà lo svolgimento degli incontri sul Centrale anche in caso di pioggia, ergo avremo sempre la finale maschile di domenica, la variabile meteo non è più contemplata.

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Nel frattempo si è fatta l’ora di incontrare il mio benefattore, l’uomo grazie al quale mi sono precipitato quì una volta avuto il suo via libera.

Stefano M. mi attende in fondo alla scale che portano allo studio televisivo dal quale lavora.

La chiacchierata è piacevole anche perché si parla delle nostre passioni, il tennis e il giornalismo, lui ne ha fatto una professione, io no, ma una passione è pur sempre tale e va assecondata anche se nella vita si è intrapreso un altro percorso.

Da persona cortese qual’è Stefano all’improvviso mi chiede

Ti andrebbe di visitare il nostro studio?

Non me lo faccio ripetere e per la seconda volta nel giro di pochi minuti mi trovo a strabuzzare gli occhi dalla meraviglia.

Da perfetto padrone di casa Stefano mi introduce ai colleghi che stanno lavorando per intervistare quella che nel frattempo si è laureata campionessa di Wimbledon per il secondo anno consecutivo, Venus. Poi è la volta di un altro personaggio familiare a me caro, anzi carissimo, il buon Massimo M., molti di voi lo riconosceranno nella foto anche se ne conoscono più facilmente la voce.

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Niente male come primo giorno, mi addormento cullato da uno speciale in tv sulla Coppa di Wimbledon, chissà a chi la consegnerà domani il Duca di Kent.

Domenica 6 luglio, il tempo è un po’ nuvoloso, un classico per Londra.

Arrivato a Church Road iniziano a cadere le prime gocce, anche i campi secondari vengono coperti dai teloni.

Poi fa capolino il sole, un classico pure lui e con il sole ci si scalda un po’ tutti, Rafa Nadal in particolare.

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Di Roger Federer nemmeno l’ombra, qualcuno giura di averlo visto, qualcuno mormora che si è allenato su un campo all’esterno di Wimbledon, sta di fatto che la sua entità rimane astratta dal contesto rispetto al rivale spagnolo.

Lo vedremo materializzarsi sul Centrale più tardi, si ma a che ora?

La finale è in programma per le 14 ore di Londra, ma Radio Wimbledon ha già annunciato che ci sarà uno slittamento di mezz’ora. Ne approfitto per gustarmi le celeberrime fragole con panna che qui sono un must prima di accomodarmi sulla Henman Hill e godermi l’avvicinamento alla finale sul maxi-schermo.

C’è grande attesa e grande equilibrio per la sfida annunciata come la madre di tutte le partite. E’ la sesta finale Slam tra Federer e Nadal e il bilancio è composto da due vittorie per il primo, tutte quì a Wimbledon e tre per il secondo, tutte sulla terra di Parigi, l’ultima lo scorso 8 giugno, ed è stato un massacro.

Finora nessuno dei due è riuscito a vincere in “casa” dell’altro, ma Nadal ha dimostrato grandi miglioramenti e si è avvicinato tantissimo al Federer su erba strappandogli un set in finale nel 2006 e due nella finale 2007 quando andò ben due volte 15-40 sul servizio dello svizzero al quinto.

Si gioca per la storia, il sesto Wimbledon per Roger, mai nessuno ci è riuscito, o il primo per Rafa.

Smette di piovere e alle 14.35 il match può avere inizio.

Il primo punto è l’emblema di quello che ci attende, quattordici colpi di un’intensità straordinaria e dritto lungolinea vincente di Nadal, gli spagnoli assiepati sulla collinetta esultano numerosi.

Al terzo game arriva il break decisivo del set che si chiude sul 6-4 in 48 minuti. Ne basteranno altrettanti allo spagnolo per vincere anche il secondo con lo stesso punteggio.

Federer soffre maledettamente Nadal, questa è la verità inconfutabile dopo i primi due set e dopo la finale del Roland Garros. Rafa lo mortifica, gli toglie i tempi di gioco, rimanda tutto dall’altra parte, rompe i suoi schemi.

Non ce la faccio a stare quì seduto inerme a vedere il mio campione così in difficoltà.

E’ ora di mettere alla prova l’inflessibilità degli inglesi, sono a due passi dal Centrale, se sofferenza deve essere voglio toccarla con mano, sentirla dal vivo dell’azione.

Rompo gli indugi, risalgo le scale del Centre Court e mi piazzo davanti a uno dei tanti ingressi che circondano il terreno di gioco. La guardia di servizio ne ostruisce la visuale ma con un pò di pazienza ce la si può fare.

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Dal vivo è tutta un’altra cosa. Chiudo gli occhi. Il rumore della pallina che esce dalla corde della racchetta di Roger è pura armonia, è sweet swing, è una frustata liquida, ritmata.

L’impatto di Rafa è decisamente più possente, più potente, intimidisce.

Passano i minuti e Roger lentamente, a poco a poco, ritrova il suo tennis, inizia a danzare sull’erba, trova più spesso la rete, ma sul 5-4 la pioggia impone a tutti di andare a prendere un tè, d’altronde sono le 17 in punto.

Scendo nel vialetto, ho bisogno di far sbollire la tensione. E’ qui che faccio l’incontro con lo scriba, Gianni Clerici, che insieme a Rino Tommasi sta commentando la finale in diretta tv. Passo veloce, zainetto in spalla, mi affianco per complimentarmi con lui e al momento della stretta di mano mi dice

Ah è venuto anche lei ad assistere alla sconfitta dello svizzero?

Ma come? Abiti in Svizzera, ti sei sempre professato amante del bel gioco di Federer e non mi concedi nemmeno la speranza di una rimonta? Uomo di poca fede o saggezza di giornalista che ne ha viste e commentate tante?

Alle 18:10 Federer e Nadal tornano in campo ed è subito tie-break, lo vince Roger per 7 punti a 5.

C’è vita oltre che speranza.

Il quarto set scorre via sul filo dell’equilibrio, nessuno arretra di un millimetro, ma la buona notizia è che Federer è tornato in partita, si va al tie-break, di nuovo.

Nadal sale 4-1 e 5-2 con due servizi a disposizione, ma sul più bello si smarrisce, commette un doppio fallo, si offre alla risposta dell’avversario senza la consueta cattiveria e in men che non si dica Roger si ritrova 6-5 a proprio favore.

Accenni di umanità da parte dello spagnolo che però riesce a ribaltare ancora una volta la situazione e a portarsi a un solo punto dalla conquista del torneo sul 7-6.

Federer annulla il match point con un servizio vincente, 7-7

Lo scambio successivo viene chiuso con uno straordinario passante di dritto da parte di Nadal che colpisce in allungo e in precario equilibrio dopo il profondo attacco di Federer. 8-7 Nadal e secondo match point della partita, questa volta con il servizio a favore.

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E’ qui che viene fuori l’immensa classe di Roger Federer.

Messo all’angolo da un attacco in diagonale a uscire, lo svizzero impatta di rovescio, il colpo meno sicuro del suo repertorio,  mandando la pallina a morire all’incrocio delle righe. E’ 8 pari.

Esplodo in un c’mon urlato a squarciagola e mi ritrovo abbracciato a un tifoso inglese che come me ha bisogno di lasciare andare la tensione accumulata.

Ma non è finita. Sul colpo successivo Federer si apre bene il campo per poi chiudere con un dritto vincente e si guadagna nuovamente la palla del set, che chiude con un servizio vincente. E’ di nuovo abbraccio con il tifoso. La finale di Wimbledon 2008 verrà decisa al quinto set.

Mi precipito giù per le scale, ho bisogno di prendere ossigeno, poi torno su.

Sul 2-2 e 40 pari c’è una nuova sospensione per pioggia, sono le 19:50 e si è giocato per quasi quattro ore, ma quando finisce, se finisce?

Quando si torna in campo, mezz’ora dopo, preferisco rimanere giù, non ce la faccio più a guardare, passeggio nel vialetto semideserto lungo tutto il perimetro dell’edificio.

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Non sono nervoso, ma in una sorta di trance meditativa. Ci esco per un istante soltanto quando su uno dei tabelloni elettronici che riempiono l’impianto appare il punteggio di 30-40 sul servizio Nadal con Federer in vantaggio 4-3.

E’ un attimo, penso

eccolo, è il momento che aspettavo

trattengo il respiro, ma è tutto inutile, 40 pari e di lì a poco 4 pari.

Dal rumore del pubblico capisco che si va avanti sul filo dell’equilibrio fino a quando un urlo più fragoroso mi travolge, seguito dagli incitamenti a Rafa, è arrivato il break, ora toccherà allo spagnolo servire per il match.

Ancora urla, incitamenti ora per l’uno ora per l’altro, “non è finita”, poi il boato, lungo, travolgente, definitivo. Capisco che abbiamo perso.

Alle 21:15 Rafa Nadal chiude gli occhi e si sdraia esausto sul campo di battaglia, ha compiuto l’impresa di battere Roger Federer a Wimbledon.

Sono già per strada, sulla via del ritorno le luci del tramonto londinese all’orizzonte fanno da sfondo al mio stato d’animo diviso a metà tra la magia a cui ho assistito e la delusione per l’abdicazione del Regno, ma quel che è certo è che oggi si è iniziato a giocare per la storia e si è finito con lo scrivere la leggenda.

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Sono trascorsi dieci anni da quella finale, ancora considerata da molti la partita del secolo. Roger Federer e Rafael Nadal continuano incredibilmente a dominare la scena del tennis mondiale. Una rivalità senza uguali nella storia di questo sport in cui l’uno ha avuto bisogno dell’altro per crescere e migliorarsi e allungare la propria carriera fino a raggiungere vette impensabili, spostando in là ancora una volta il limite del tramonto.

 

 

 

 

 

 

All’inferno andata e ritorno

L’aveva in pugno, ma è andato a tanto così dal perderla per poi vincerla, una partita che è la resurrezione di un uomo capace di lottare contro il destino avverso

Ve lo confesso, il pezzo era pronto,

la seconda rimonta in due giorni consumata nel caldo del deserto californiano, per giunta con quella lunga barba a rievocare immagini messianiche, erano elementi troppo invitanti per non celebrare l’ennesima resurrezione di Sua Santità Roger da Basilea a pochi giorni dalla Pasqua.

Dopo un sabato di passione speso a recuperare un set e tanto gioco alla promettente stellina croata Borna Coric, ecco lo stesso copione ripresentarsi in finale contro “la torre di Tandil” Juan Martin Del Potro, giocatore di ben altra consistenza.

All’inferno andata e ritorno, era questo il titolo suggerito da una partita drammatica, estremamente incerta, che aveva visto per quasi 2 ore il campione svizzero prima soccombere e poi tentare di arginare il ritmo asfissiante impresso dall’argentino.

E quando l’ennesimo rovescio coperto della new age rogeriana è andato a segno rompendo di fatto l’equilibrio del terzo e decisivo set le sembianze dello svizzero hanno iniziato a rivelarsi sulla sua tovaglietta o sudario che dir si voglia, nella pausa tra il nono e il decimo game.

Il copione sembrava già scritto quando lo scenario è mutato, ancora una volta, rivelando la verità tenuta nascosta per oltre 2 ore e mezza di gioco.

Cinque minuti, il tempo necessario a Delpo per tornare dall’aldilà di 3 palle match prima di assestare il micidiale “uppercut”, un dritto inside-out da destra verso sinistra che rendeva vano e al tempo stesso umano ogni tentativo di recupero di Federer, al quale non rimaneva che assistere all’assolo argentino di lì alla fine.

64 67 76 e primo meritatissimo Master 1000 in carriera portato a casa a 29 anni e dopo quattro interventi ai polsi, uno al destro e tre al sinistro, roba da far vacillare anche le convinzioni dei più caparbi.

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Juan Martin Del Potro nel marzo 2014, dopo il primo dei quattro interventi al polso

Non ci posso credere, sono così felice di essere tornato a giocare a questi livelli. Ho stupito me stesso, ora voglio stupire il mondo del tennis. Ho vissuto momenti durissimi, voglio non pensarci più. Sto cercando di vivere la mia vita al massimo, giocando al meglio delle mie possibilità ovunque.

E’ questa dunque la vera resurrezione da celebrare, la rinascita di un campione sfortunato che avrebbe meritato di più dal proprio talento, ma che ora, passata la tempesta, sembra l’unico in campo capace di tener testa al numero uno del tennis.

Lunga (seconda) vita Delpo, ci vediamo a Miami, magari la domenica di Pasqua.

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L’arma in più (parte finale)

«Non pensare a Rafa. Pensa solo a colpire la palla, non occuparti del tuo avversario. Gioca libero, come se il tuo avversario non esistesse» (Ivan Ljubicic)

E’ il 29 gennaio 2017, il giorno della finale.

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Questi due mostri sacri in una finale slam non si affrontano da sei anni. Parigi 2011 l’ultima volta. Inutile dire chi abbia vinto. Qui a Melbourne si sono affrontati tre volte. Chi ha vinto tutte e tre le volte? Si, sempre il mancino.

Ma questa volta fin dall’inizio sembra un po’ girato il vento. E il rovescio coperto di Roger viaggia che è una bellezza. Break a metà set e primo parziale per lo svizzero per 64.

E’ veemente la reazione di Rafa. Se i gatti hanno sette vite, Nadal ne ha almeno quattordici, se non ventuno. Si prende di rabbia due break consecutivi nel secondo set, poi accorciati a uno da Roger, ma non basta. 63 e palla a centro, un set pari.

Nel terzo l’inerzia gira nuovamente ed è un dominio svizzero. Roger non molla per un attimo il copione assegnatogli dal coach. Aggressivo. Propositivo. Piedi piantati sulla linea di fondo e quando possibile chiudere senza prolungare gli scambi. In un amen 61 e due set a uno Federer.

Le statistiche dicono che lo svizzero avanti 2-1 in una finale slam ha finito per perdere solo una volta, in quello sciagurato US Open 2009, quando gettò alle ortiche una partita già vinta contro Del Potro. Ma con Nadal è inutile affidarsi alla cabala, di vite ne ha ancora parecchie. Break immediato dello spagnolo tenuto fino alla fine per il 63 con cui pareggia il conto e rimanda ogni questione al quinto e decisivo set.

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Inizia Roger a servire e si fa subito brekkare.

Ecco. Ci risiamo. Lotti, sudi, i punti più belli li fai tu, ma poi chi porta a casa la pagnotta è sempre il braccio di ferro di Manacor.

Ma non tutto è perduto, Nadal conferma si il break di vantaggio portandosi sul 2-0, tuttavia concede palle break sul suo servizio. E a livello tattico Ivan aveva perfettamente ragione: il rovescio incrociato coperto di Roger fa malissimo a Nadal. 2-1 e quindi 3-1, ma sempre concedendo occasioni di contro break.

Si può fare, si deve fare!

Subito 3-2, alla quinta occasione sul servizio Nadal, finalmente, il contro break: 3-3.

A zero Roger tiene la sua battuta che così mette per la prima volta la testa avanti nel set decisivo. Nell’ottavo game si spinge perfino 0-40, ma le vite di Nadal, ora è ufficiale, sono molte di più di quelle dei gatti. Le annulla tutte, si procura anche una palla del 4-4, ma Roger non ci sta. Ancora una palla break, ancora parità.

Ma è sulla successiva parità che si gioca il punto più bello del torneo. 26 colpi.

Il terreno prediletto di Nadal, quello degli scambi prolungati. Ma non oggi. E’ a questo punto che a Roger tornano in mente le parole del suo coach prima della partita:

«Non pensare a Rafa. Pensa solo a colpire la palla, non occuparti del tuo avversario. Gioca libero, come se il tuo avversario non esistesse»

In ogni colpo i due mettono tutto quello che hanno. Fosse pugilato sarebbe come se entrambi i pugili tirassero il gancio decisivo, a cui tuttavia l’avversario non reagisce andando al tappeto, ma tirandone uno più forte ancora. Questo per 25 colpi.

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Ma il ventiseiesimo, un dritto lungolinea in spaccata di Roger, è un vincente che gli consegna l’ennesima palla break. Che Nadal annullerà con un ace d’accordo, ma quel punto da 26 colpi è una sorta di scambio simbolico: chi ha vinto quello deve prevalere.

E alla palla break successiva è 5-3 Federer, che può chiudere partita e torneo.

Ma Rafa di vite forse non ne ha nemmeno ventuno, ma ventotto o trentacinque, perché in un amen si invola 15-40.

La prima palla break Roger la annulla con un ace, la seconda con un dritto vincente inside out. Sulla parità altro servizio vincente e primo match point, che però non sfrutta.

Al secondo match point, Roger serve centrale, sul rovescio di Rafa, che risponde corto in mezzo al campo. Roger raccoglie di dritto e incrocia stretto, Nadal non è in grado di intercettare la pallina. Ma chiama il falco.

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E si, perché il destino quando decide di attuare un piano bellissimo, ci va fino in fondo.

Lo vuoi uno slam dopo cinque anni e dopo uno stop di sei mesi? E allora in finale incontri la tua bestia nera, che dovrai battere su un tema tattico col quale ti ha sempre demolito e il match point verrà sancito da quella tecnologia che hai sempre detestato.

Ma il falco sentenzia che il dritto a uscire stretto è atterrato in piena riga.

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Game, set, match, Federer!

Sugli spalti della Rod Laver Arena e a casa davanti alla tv le lacrime che saranno scese avranno riempito un fiume, perché in onda è andato un avvenimento che è già un film.

E il discorso di Roger alla cerimonia di premiazione riflette in pieno il significato di favola che si è appena compiuta.

Rivolgendosi a Nadal dice:

“Penso a qualche mese fa, quando ti sono venuto a trovare a Maiorca: io praticamente camminavo su una gamba sola e anche tu non stavi benissimo. Abbiamo inaugurato la tua accademia e fatto qualche palleggio coi ragazzini, mai ci saremmo sognati di ritrovarci qui a giocarci una finale slam solo pochi mesi dopo.”

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Poi va avanti:

“Oggi avrei potuto anche perdere e questo non avrebbe cambiato nulla, il mio ritorno sarebbe stato ugualmente grandissimo. Il tennis è uno sport duro, perché si vince o si perde, non c’è il pareggio. Ma ci fosse stato un pareggio, stasera sarei stato contento di accettarlo e dividerlo con Rafa.”

Quello che né Roger, né nessuno in quel momento immagina, è che quella vittoria, che rimarrà la più inaspettata e quindi la più dolce di sempre, è stato solo il preludio a una stagione che rimarrà fra le sue più vincenti in assoluto. Stagione nella quale vincerà un totale di sette tornei (mai così tanti dal 2007) e che chiuderà con un bilancio di 52 vittorie e 5 sole sconfitte, due delle quali in partite dove comunque era arrivato a match point.

Vincerà il suo ottavo Wimbledon, diventando il tennista uomo più vincente a Church Road. E, non ultimo, batterà il suo eterno rivale Nadal altre tre volte e sempre abbastanza nettamente per due set a zero.

La chiave di quei successi? Il rovescio coperto aggressivo, la sua arma in più!

E qui stavolta facciamo un passo in avanti di dodici mesi. Torniamo alla finale del 2018. Il rovescio coperto, pensato innanzitutto per arginare Nadal, è ormai un’arma letale utilissima con tutti gli avversari, e Cilic non fa eccezione.

Strappato con le unghie l’1-0 del set decisivo, ai vantaggi Roger vince i due giochi successivi, salendo 3-0. Cilic accorcia sul 3-1, ma il body language di entrambi è ormai piuttosto chiaro.

Federer appare consapevole di aver corso un grossissimo pericolo e di esserne uscito illeso. Cilic di aver visto passare un bel treno per la gloria e di non esserci salito per tempo.

4-1 Roger, che torna a tenere un servizio a zero dopo tantissimo tempo e ulteriore break al gioco successivo. Sul 5-1 la Storia si respira ovunque alla Rod Laver Arena. 40-0, seconda di servizio vincente. Ma a decidere se è buona o meno sarà ancora il falco.

A differenza dell’anno prima quando tutti hanno trattenuto il respiro tremando di speranza o paura a seconda della fazione di appartenenza, quest’anno la chiamata di Cilic lascia poca suspense.

Non è un game in bilico: siamo 40-0 e anche un eventuale doppio fallo lascerebbe a Roger altri due match point consecutivi sulla sua battuta.

Ma non ce n’è bisogno. La tecnologia è ancora amica della Svizzera.

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Sono 20 Slam. 20.

E non è detto sia l’ultimo.

Quel gran burlone di Andy Roddick scriverà in un tweet:

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Se Roger arriva a 21, il suo conto titoli slam potrebbe legalmente bere in America”, facendo riferimento evidentemente all’età minima che occorre negli States per poter acquistare alcool, a quanto pare più complicato che acquistare armi, ma questa è un’altra storia e non la affrontiamo di certo qui ora.

Parlando di storia, quella con la S maiuscola, invece.

Su un palcoscenico meno prestigioso, Rotterdam, raggiungendo il traguardo minimo della semifinale prima, e completando l’opera vincendo il torneo poi, Roger Federer torna numero 1 al mondo quattordici anni dopo la prima volta, cinque anni e mezzo dopo l’ultima ed a quasi 37 anni. Come dite? E’ un record? Che domande!

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L’arma in più (parte prima)

Sei rovesci coperti. Sei di fila, all’interno di uno scambio al cardiopalma il cui esito è stato forse decisivo nella finale degli Australian Open

Sei rovesci coperti. Sei di fila, all’interno di uno scambio al cardiopalma il cui esito è stato forse determinante per le sorti dell’intero match.

Game d’apertura del quinto set della finale degli Australian Open 2018.

Federer è al servizio dopo aver perso malamente gli ultimi due turni di battuta del quarto. Un set che sembrava vederlo lanciato a vele spiegate verso il sesto trionfo a Melbourne e l’incredibile quota di venti Slam, 20, vinti in carriera. Invece poi qualcosa, come in un maledetto incantesimo, si è spezzato. A Roger non è entrata più una prima di servizio nemmeno a pagarla e Cilic, il suo avversario, sembra essere tornato il clone del giocatore da playstation che tanto male gli aveva fatto a New York nel 2014.

L’inerzia del quinto set è quindi tutta a favore del croato. Vincere il game d’apertura è fondamentale per Roger. Primo, per non andare pronti via sotto di un break, ma soprattutto per interrompere un’emorragia di cinque giochi consecutivi a favore di Cilic.

30-0…dai che forse questo gioco va via facile. 30 pari. Macché. 40-30: dai, dai che lo portiamo a casa!

40 pari. Niente

La facilità con cui è andato via liscio il primo set ora è solo un miraggio.

Vantaggio Cilic: mio Dio, mi sa che questa volta non ce la fa.

Anche gli dei possono cadere dopotutto. Ma si dice anche che la fortuna aiuti gli audaci.

E tanta, tantissima fortuna viene in soccorso di Roger sulla palla break. Su una seconda di servizio non certo irresistibile Cilic affossa in rete la risposta di dritto. Ha un’altra opportunità Marin, ma Roger la annulla con un’ottima prima su cui il croato stecca la risposta e poco ha da recriminare. Quindi è Federer ad avere una seconda chance per tenere il servizio. Lo scambio finisce subito sulla diagonale di rovescio di Roger e partono sei rovesci coperti, l’ultimo dei quali gli regala il game, il tutto certificato dal grande nemico: l’occhio di falco.

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Il rovescio coperto dunque. E qui è doveroso fare un passo indietro.

Dodici mesi prima, sempre Melbourne, sempre Australian Open. Roger, che va per i 36, rientra alle competizioni ufficiali dopo sei mesi di stop. Dopo una stagione, il 2016, che per la prima volta dal 2000 non lo vede vincere nemmeno un torneo e che per la prima volta dal 2002 lo vede terminare l’anno fuori dalla top ten, precisamente al numero 17. Nelle tante interviste che rilascia, Roger si dice contento di esserci, di sentirsi ottimista e in ottima forma. Ma paiono molto più dichiarazioni diplomatiche di chi non può dire diversamente che non un reale convincimento.

E i primi due turni sembrano avvalorare questa ipotesi. Contro Jurgen Melzer, veterano austriaco oramai sprofondato fuori dai primi 200 del mondo, cede addirittura un parziale. Al secondo turno, contro lo sconosciuto Rubin, si impone tre set a zero, ma senza dare la sensazione di possedere un tennis brillantissimo. E il terzo turno, contro il ceco Tomas Berdych, in quel momento numero 10 del ranking e contro il quale più volte in passato aveva perso, per più di qualcuno ha l’aria di essere il capolinea.

Invece è una lezione di tennis del Maestro svizzero.

Qui si ammirano per la prima volta una sequenza di rovesci coperti di rara bellezza e non inferiore efficacia. 62-64-64 in meno di due ore. Berdych alla fine dirà:

“Questa partita non avrei voluto giocarla, ma vederla, perché deve essere stato uno spettacolo veder giocare così Roger oggi!”

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Agli ottavi di finale Federer trova un altro avversario di spessore, il giapponese Kei Nishikori. Parte malissimo, 0-4, ma poi recupera e il set finisce al tie-break, che tuttavia perde.

Tanta fatica per perdere comunque il set? Non valeva la pena lasciarlo andare e risparmiare energie per il resto del match, visto che non si sa quanta autonomia possa avere?

Nemmeno per sogno: quel recupero gli ha dato la fiducia di potersela giocare eccome contro un top 5. Federer vince i successivi due parziali mostrando grande autorità e perde il quarto più per sue leggerezze e distrazioni, che per un reale ritorno dell’avversario. Al quinto e decisivo set prende subito un break di vantaggio e chiude poco dopo 63, lanciandosi in un insolito urlo liberatorio verso il suo angolo.

“Ci sono anch’io e me la gioco fino alla fine, non sono venuto qui a fare la comparsa o il tour di addio!”

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Nei quarti di finale, a sorpresa, anziché il numero 1 Andy Murray, Roger affronta il russo di Germania Misha Zverev, giustiziere dello scozzese negli ottavi. 62-75-62, mera formalità e pass per le semifinali conquistato. Ad attenderlo c’è il connazionale e amico Stan Wawrinka, che ha sempre battuto su superfici diverse dalla terra rossa, ma che ora va considerato leggermente favorito su Roger, visto che, oltre a essere numero 4, è reduce dalla grande vittoria agli US Open del settembre scorso. E invece, nuovamente, Roger impone la sua legge e con grande autorevolezza vince i primi due set: 75-63. Sembra il preludio a un’altra cavalcata trionfale.

Come può recuperare Wawrinka contro il suo amico che gioca in questo modo?

Con un head to head che in quel momento dice 18-3 Roger e 14-0 se si considerano le partite non su terra?

Invece Stan the Man non ci sta. Non sarà mai nemmeno paragonabile al suo più illustre connazionale, ma anche lui è un Campione con la C maiuscola. E’ arrivato relativamente tardi a certi traguardi, ma vincere proprio qui in Australia nel 2014 lo ha fatto svoltare a livello di mentalità. Non è un avversario qualunque che, una volta messo sotto, non si rialza più. E’ sicuramente battibile, ma finché il giudice di sedia non pronuncia le fatidiche tre parole: “game, set and match…” non molla niente. E risale, eccome se risale. Il terzo set va via in un lampo. 61 Wawrinka. Il quarto è più equilibrato ma è sempre Stan a vincerlo, per 64. Ci si gioca tutto al quinto, ancora una volta. Roger però avanti due set a zero ha perso solo due volte in carriera e non è certo oggi che vuole sporcare questa statistica. Ci sono tante cose, anche esterne a lui, che lo vogliono vincitore. Djokovic, il robot ingiocabile di un anno prima, che esce al secondo turno. Il già citato Murray, fresco numero 1 e autore di un finale di stagione 2016 fra i più fenomenali di sempre, che viene eliminato agli ottavi. Non può essere solo mera coincidenza.

In finale deve andarci Roger. E ci va.

Nonostante rischi al quinto, dovendo annullare una palla break. Ma poi è lui a operare il break decisivo e a chiudere per 63. Si gira ancora verso il suo angolo, non urlando come contro Nishikori, ma guardando tutti dolcemente.

“E’ tutto vero? Siamo in finale?”

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Una favola che si rispetti deve avere il suo lieto fine, si sa, ma stavolta il destino sembra essere davvero crudele. Perché chi esce vincitore dall’altra semifinale?

No, dai ragazzi non può essere vero, non fate scherzi. Ma se non superava gli ottavi in uno slam da due anni!? Ma se anche lui l’anno scorso ha preso una vacanza forzata di svariati mesi!?

No, non è uno scherzo. In finale ci arriva proprio lui: Rafael Nadal da Manacor, Maiorca, Spagna. Quello che ha battuto Roger una volta si e l’altra pure. Quello che Roger non ha mai battuto al Roland Garros, senza nemmeno andarci vicino, mentre Rafa, lui si che l’ha spodestato sul giardino di casa, Wimbledon.

Destino crudele si. Sta fuori sei mesi, rientra, contro ogni pronostico arriva in finale e chi trova, la sua nemesi? E quando lo batte questo?

Eppure c’è chi è convinto che lo spagnolo si possa battere eccome. E’ il suo coach, Ivan Ljubicic, che è giovane abbastanza da aver affrontato sia Roger che Rafa nella sua carriera. Ha una grandissima intelligenza tattica ed è lui che ha fatto compiere un bel salto di qualità al suo assistito precedente, il canadese Milos Raonic. Poi però è arrivata, a fine 2015, la chiamata di Roger, e alla Leggenda non ha potuto dire di no. Il 2016 è stato un anno disgraziato, poco o nulla delle idée di Ivan è stato possibile mettere in pratica, troppi i continui malanni fisici di Federer. Ma questo non gli ha impedito di “studiare il caso”, fare analisi, ipotizzare modi diversi di approcciare determinate situazioni di gioco. E cosa tira fuori Ivan per la finale?

Dice a Roger che può vincere facendo un passo avanti e colpendo il rovescio non in back, ma d’incontro, coperto, forte, sul dritto di Nadal.

Si, vabbé, questo ha bevuto, e anche tanto!

Ma se il 23 a 11 negli scontri diretti a favore di Rafa ha le sue fondamenta tattiche proprio sulla diagonale rovescio Roger – dritto Rafa! E questo sostiene che proprio toccando quel tasto avremo la chiave di volta del successo?

Ivan non è mai stato così serio. Tocca il tasto dolente, vero, ma è il modo di toccarlo a fare la differenza. Aggredendo anziché essere aggrediti. Colpendo con percentuali di rischio enormi e quindi accettando che si faranno non pochi errori. Se il saldo vincenti – errori sarà positivo, allora ci saranno delle chances, allora ce le giocheremo davvero con l’arma in più.

(l’arma in più continua e vi aspetta in finale per la seconda parte)

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Tra lacrime e stupore

Ed ora ladies and gentlemen è il momento del vincitore

era questa la trentesima volta che disputava una finale dello Slam, un record

Sette di queste finali le ha giocate qui, agli Australian Open

Sei le ha vinte

Oggi quest’uomo è diventato il primo uomo della storia del tennis a raggiungere un incredibile ventesimo titolo dello Slam

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Ecco, ci (ri)siamo, ora tocca a me

…from Switzerland, ma amato in tutto il mondo, ROGER FEDERER!

Ovazione della folla nella Rod Laver Arena

Alzo le braccia, muovo in avanti, sorrido

tre gradini e sono sul palco, Ashley Cooper mi consegna la coppa, il mio amato Norman

la bacio, la mostro al mondo intero

Un boato

Sono felicissimo ed emozionato, molto emozionato

Vincere è la conclusione di una favola, è un sogno che si avvera, dopo l’anno stupendo…il 2017

mi trema la voce, mi blocco, abbasso lo sguardo…che fatica ragazzi

Applaudono tutti, applaude Mirka, applaude Rod che intravedo lì in fondo

Vado avanti, cerco di sopraffare l’emozione, ma ho un nodo in gola

E voi, che riempite lo stadio, che fate si che mi vada ad allenare, che mi rendete nervoso, teso, GRAZIE!

Altro boato

Riprendo fiato, cerco un po’ di coraggio per l’ultimo ringraziamento, il più importante

It’s tough

(è dura)

And my team, I love you

Cedo di schianto

Piango

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Esattamente come nove anni fa, beh non proprio e-sat-ta-men-te

(Sorrido)

Già allora molti mi davano per finito

e invece sono ancora quà

Sono passato dal momento più buio “Dio, quella cosa mi stava uccidendo sul serio” se ci penso

a vincere due volte di fila questo torneo

Dopo mesi che ero stato fermo

per giunta anche contro il mio eterno rivale Rafa (lo scorso anno)

Sono incredulo e sono fiero

Vorrei abbracciarvi tutti per avermi sostenuto sempre

Per aver creduto in me

Per aver superato come me lo sconforto di quei momenti in cui tutto sembrava perduto

Guardo a terra e sbuffo per cercare di trattenere le lacrime

Vedo tutti questi anni scorrere rapidamente come in un film

Sono arrivato a venti Slam e sembro il primo a non crederci

Venti Slam

E’ pazzesco

Eppure non mi sento per niente stanco, la passione alimenta le mie forze

Tutti mi dicono che gioco meglio ora rispetto a dieci anni fa, quindi perché smettere?

Mi fermerò soltanto quando Mirka si stancherà di viaggiare

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Lo speaker annuncia nuovamente il mio nome

Esco dallo stato di sospensione e mi esorto

C’mon Roger, goditi l’attimo

Bacia la coppa e ritrova il sorriso

Il peggio è passato, Norman sta tornando a casa

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