Il cigno di Utrecht

Il cigno di Utrecht. Piedi di seta. Il tulipano bianco. L’olandese volante. Questi sono solamente alcuni soprannomi che ancora ricordo di Marco van Basten, un predestinato, nel bene e nel male.

I suoi genitori fin da piccolo iniziano a chiamarlo Marco, un po’ come diminutivo del suo vero nome, Marcel, un po’ come piace pensare a me perché era scritto nel destino che si sarebbe consacrato come centravanti di livello mondiale proprio in Italia. Se poi giochi nell’Ajax ed hai come compagno di allenamenti un certo Johann Crujiff, che sostituisci nella tua partita d’esordio andando in gol, probabilmente non siamo più di fronte a una mera coincidenza, ma a un ideale passaggio di consegne.

Purtroppo Marco van Basten è un predestinato anche nel male. Perché la sua storia è stata tanto bella quanto maledettamente breve, a causa di quella caviglia sinistra che lo ha tormentato per tutta la carriera. Una maledetta cartilagine gli ha infatti fatto trascorrere più tempo sotto i ferri e in riabilitazione che sul campo, costringendolo al ritiro ufficiale a nemmeno 31 anni, dopo un calvario iniziato quando di anni ne aveva solo 28.

Un conto pagato troppo presto e a caro prezzo rispetto al suo smisurato talento. Ogni gol non era mai banale, ogni giocata era una pennellata di Van Gogh. Ed è questo, più ancora dei numeri, che rimane impresso di van Basten a oltre vent’anni di distanza dal suo addio ufficiale al calcio.

Cresce nelle giovanili dell’Utrecht, rivelando da subito un potenziale enorme. Tuttavia, in molti non sono convinti di tesserarlo poiché, sebbene sia molto dotato tecnicamente, è ancora troppo basso e gracile. Nel 1981, a soli 17 anni, supera di poco il metro e sessanta. Ma in poco più di due mesi cresce di oltre 20 centimetri, arrivando a sfiorare il metro e novanta, cui successivamente aggiungerà un bel po’ di chili per proporzionare il tutto.

Diventa il tipico centravanti moderno, alto e forte fisicamente, ma con la rapidità e la padronanza di palleggio negli spazi stretti tipiche dei ‘piccoletti’.

Dal 1982 al 1987 milita nell’Ajax, dove raccoglie il testimone di Johann Cruijff diventando subito un leader. Vince tre titoli di capocannoniere, una Scarpa d’Oro, una coppa delle Coppe, tre campionati olandesi e tre coppe d’Olanda.

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Già un discreto curriculum per un giovane di soli 23 anni, ma la consacrazione definitiva deve ancora venire. Nel 1986 il Milan viene acquistato da un certo Silvio Berlusconi, il quale intende assolutamente riportare il ‘diavolo’ ai vecchi fasti. Per farlo, ovvio, non si può prescindere dall’avere interpreti adeguati. Così ‘il Cavaliere’ e il suo entourage si mettono al lavoro per allestire una squadra competitiva per la stagione 1987-88.

Leggenda vuole che la scelta di prendere van Basten sia avvenuta durante la visione di una videocassetta di Liverpool-Ajax, in cui il giocatore da tenere sotto osservazione doveva essere Ian Rush. Ma fin da subito Berlusconi rimane abbagliato dall’eleganza e dalle movenze dell’attaccante dei lancieri di Amsterdam, e ordina ai suoi di andare in missione per portarlo al Milan.

E’ l’inizio di un ciclo che cambierà la storia non solo del calcio italiano, ma anche di quello europeo e mondiale. Assieme a van Basten, vengono acquistati il connazionale Ruud Gullit, il capitano romanista Carlo Ancelotti e un allenatore semi sconosciuto proveniente dalla serie B col Parma, Arrigo Sacchi. Gli acquisti vanno a completare una rosa già di buon livello composta tra gli altri da Franco Baresi, Mauro Tassotti, Paolo Maldini, Roberto Donadoni e Pietro Paolo Virdis.

Ma pronti via la sfortuna presenta il conto. Dopo essere andato in gol sia in coppa Italia che all’esordio in serie A contro il Pisa (segnando al portiere Alessandro Nista, segnatevi il nome perché ci torneremo più tardi) la caviglia ferma Marco nella gara di coppa Uefa contro l’Espanyol.

E’ necessario l’intervento chirurgico.

Privo del suo centravanti principe, il Milan viene eliminato dalla coppa Uefa e perde quasi subito terreno in campionato dal Napoli di Maradona. Iniziano a circolare le voci su un probabile esonero di Sacchi. Ma il presidente Berlusconi prende posizione e lo fa in maniera autorevole e intelligente (negli ultimi anni, ahimé, verrà più spesso ricordato per uscite inopportune e destabilizzanti).

Riunisce a rapporto la squadra e comunica un messaggio tanto conciso quanto inequivocabile: l’allenatore lo ha scelto lui ed ha il ‘duecentopercento’ della sua fiducia. Chi tiene ai colori rossoneri segua pedissequamente le direttive dell’allenatore, chi invece pensa che i suoi metodi non portino nulla di buono, è libero di farlo, chiaramente lasciando il Milan e i suoi ricchi ingaggi.

E’ il momento di svolta della stagione. A Verona, campo storicamente ostico per il ‘diavolo’, una vittoria per 1-0 con gol decisivo di Virdis dà il via a una rimonta tanto improbabile quanto spettacolare.

E in primavera, quando mancano poche giornate alla fine del campionato, torna a disposizione anche Marco. Milan-Empoli, si gioca a una porta sola: i toscani non solo non oltrepassano la metà campo, quasi non escono dalla propria area di rigore, eppure non c’è verso di fargli gol.

Nel secondo tempo Sacchi manda in campo van Basten.

Dopo sei lunghi mesi, a venti minuti dal termine, l’olandese riceve il pallone al limite dell’area spalle alla porta, finta a sinistra, sposta la sfera a destra e calcia di destro sul palo opposto: rete! Il Milan è vivo e non molla, e ora ha anche un’arma in più nella rincorsa al Napoli che sta perdendo colpi.

Altra tappa di avvicinamento è il derby con l’Inter: un dominio totale rossonero con vittoria per 2-0, strettissima nel punteggio, ma larga, larghissima in campo, tanto da far esclamare al difensore nerazzurro Riccardo Ferri:

‘Scusi arbitro, li può contare quelli del Milan? Perché non sono undici, ma quindici!’.

La ‘resa dei conti’ va in scena al San Paolo di Napoli il primo maggio 1988. I rossoneri seguono i padroni di casa staccati di un solo punto a tre giornate dal termine. Ospiti in vantaggio con Virdis, Maradona poco dopo pareggia con una punizione magistrale.

All’intervallo è 1-1: sta giocando meglio il Milan, ma non conta, conta solo il risultato.

Di nuovo Virdis su cross dalla destra di Gullit per il 2-1. Poi ancora Gullit fa ottanta metri palla al piede saltando gli avversari come birilli, palla in mezzo dove c’è il neo-entrato Marco che di piatto fa 3-1.

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E’ il gol che di fatto vale lo scudetto. Careca accorcia sul 3-2 ma il punteggio non cambierà più. La partita finisce con l’intero pubblico partenopeo in piedi ad applaudire i futuri campioni d’Italia.

Ma la stagione non è ancora finita. In Germania si giocano gli Europei e van Basten è presente con la sua Olanda. Sigla dapprima una tripletta all’Inghilterra, quindi il gol della vittoria contro i padroni di casa della Germania in semifinale.

E’ però nell’atto conclusivo del torneo che va in scena il capolavoro assoluto.

Nel secondo tempo della finale, un cross dalla sinistra raggiunge il vertice opposto dell’area di rigore, dove c’è Marco in posizione defilatissima. Qualunque giocatore normale proverebbe a stoppare il pallone per poi decidere cosa fare, se appoggiarlo in retropassaggio a un compagno o cercare il fondo per un cross in mezzo.

Ma van Basten non è un giocatore normale, si muove come uno che sa già benissimo cosa dovrà fare: al volo, da posizione impossibile, mette il pallone all’incrocio dei pali opposto.

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La traiettoria della sfera è un arcobaleno che va a depositarsi nella rete sovietica per uno dei gol più belli nella storia del calcio. L’Olanda è campione d’Europa e van Basten, già campione d’Italia con il suo Milan, chiude il 1988 col primo dei suoi tre Palloni d’Oro.

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Fedele alla missione indicata da Berlusconi al momento dell’acquisto della società, il Milan dopo l’Italia deve prendersi anche l’Europa e il mondo intero.

Cosa che puntualmente avviene per ben due volte consecutive, nel 1989 e nel 1990. Due coppe dei Campioni, due Supercoppe Europee e due coppe Intercontinentali per chiudere un triennio tanto bello quanto irripetibile.

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All’inizio del 1991 però qualcosa è cambiato. Il rapporto di van Basten con Sacchi, mai stato del tutto idilliaco, sfocia in un vero e proprio muro contro muro.

L’allenatore, ritenendo concluso il ciclo di un gruppo con cui ha vinto tutto, chiede un ricambio di non pochi elementi per continuare a vincere; Marco, che non regge più il sergente di ferro Arrigo, sbotta dicendo al presidente: ‘O me, o lui!’.

La società sceglie van Basten, liberando Sacchi che andrà ad allenare la Nazionale italiana, con la quale raggiungerà la finale dei Mondiali a USA ‘94, persa ai calci di rigore contro il Brasile.

All’inizio della stagione 1991-92 sulla panchina del Milan viene promosso, fra lo scetticismo generale, Fabio Capello. Anche lui è un sergente di ferro, ma capisce meglio di Sacchi di avere in van Basten un valore aggiunto, da tutelare e coccolare. Il risultato? Campionato dominato dalla prima all’ultima giornata, nessuna sconfitta e Marco che mette a referto 25 gol, suo record personale in serie A.

La stagione successiva si apre più che mai sotto il nome dell’olandese. 12 gol nelle prime 11 giornate, fra cui spicca il poker al San Paolo contro un Napoli ormai privo di Maradona. Un mesetto dopo si ripete in coppa Campioni a San Siro contro il Göteborg: di nuovo quattro gol, prima assoluta per un giocatore in Champions League.

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La prestazione fuga ogni dubbio su chi debba essere il vincitore del pallone d’oro 1992, il terzo che Marco mette in bacheca, e pare che non sia ancora finita.

 Purtroppo ‘pare’, perchè il destino ha in serbo altro. Pochi giorni dopo la consegna del premio, si opera ancora. La sua assenza si farà sentire, soprattutto in campionato in cui l’Inter a poco a poco recupera un distacco che pareva insormontabile. Dopo quasi cinque mesi di stop, ad Ancona van Basten mette a segno il suo ultimo gol in serie A.

E a chi lo segna? Vi ricordate Alessandro Nista, il portiere al quale sei anni prima aveva segnato il primo? Proprio lui, quasi come a chiudere malinconicamente un cerchio. Anche quel gol consentirà al Milan di portare a termine vittoriosamente il campionato 1992/93.

Ma c’è ancora un’altra partita che Marco non vuole mancare per nessun motivo: la finale di Champions League contro l’Olympique Marsiglia. E’ più o meno al 50% della condizione ma vuole giocare a tutti i costi e Capello non se la sente di negarglielo: a volte in certe partite l’esperienza e la personalità possono fare meglio della ‘semplice’ condizione fisica. Purtroppo non sarà così.

Lotta su ogni pallone, ma si vede che è lontano parente del giocatore dominante che tutti hanno imparato a conoscere. Ha una sola occasione, ma è bravo Barthez a negargli la gioia del gol, poi, a pochi minuti di una partita che vede gli avversari avanti 1-0, viene sostituito. Esce dal campo scurissimo in volto.

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Pochi giorni dopo la finale, ancora un altro intervento alla caviglia, è il quarto. Salterà per intero le stagioni 1993-94 e 1994-95. La fine in fondo al tunnel sembra intravedersi all’inizio della preparazione estiva della stagione 1995-96, ma è una mera illusione.

Dopo poche settimane di ritiro, giunge alla conclusione di dire basta. Convoca una conferenza stampa in cui dirà ai giornalisti: ‘La notizia è breve….è che semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore.’ Un brivido. Una pugnalata. Il Cigno di Utrecht non avrebbe più aperto le sue ali, sotto il peso della maledizione di quella maledetta caviglia.

VAN BASTEN

 

 

 

  

L’arma in più (parte finale)

«Non pensare a Rafa. Pensa solo a colpire la palla, non occuparti del tuo avversario. Gioca libero, come se il tuo avversario non esistesse» (Ivan Ljubicic)

E’ il 29 gennaio 2017, il giorno della finale.

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Questi due mostri sacri in una finale slam non si affrontano da sei anni. Parigi 2011 l’ultima volta. Inutile dire chi abbia vinto. Qui a Melbourne si sono affrontati tre volte. Chi ha vinto tutte e tre le volte? Si, sempre il mancino.

Ma questa volta fin dall’inizio sembra un po’ girato il vento. E il rovescio coperto di Roger viaggia che è una bellezza. Break a metà set e primo parziale per lo svizzero per 64.

E’ veemente la reazione di Rafa. Se i gatti hanno sette vite, Nadal ne ha almeno quattordici, se non ventuno. Si prende di rabbia due break consecutivi nel secondo set, poi accorciati a uno da Roger, ma non basta. 63 e palla a centro, un set pari.

Nel terzo l’inerzia gira nuovamente ed è un dominio svizzero. Roger non molla per un attimo il copione assegnatogli dal coach. Aggressivo. Propositivo. Piedi piantati sulla linea di fondo e quando possibile chiudere senza prolungare gli scambi. In un amen 61 e due set a uno Federer.

Le statistiche dicono che lo svizzero avanti 2-1 in una finale slam ha finito per perdere solo una volta, in quello sciagurato US Open 2009, quando gettò alle ortiche una partita già vinta contro Del Potro. Ma con Nadal è inutile affidarsi alla cabala, di vite ne ha ancora parecchie. Break immediato dello spagnolo tenuto fino alla fine per il 63 con cui pareggia il conto e rimanda ogni questione al quinto e decisivo set.

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Inizia Roger a servire e si fa subito brekkare.

Ecco. Ci risiamo. Lotti, sudi, i punti più belli li fai tu, ma poi chi porta a casa la pagnotta è sempre il braccio di ferro di Manacor.

Ma non tutto è perduto, Nadal conferma si il break di vantaggio portandosi sul 2-0, tuttavia concede palle break sul suo servizio. E a livello tattico Ivan aveva perfettamente ragione: il rovescio incrociato coperto di Roger fa malissimo a Nadal. 2-1 e quindi 3-1, ma sempre concedendo occasioni di contro break.

Si può fare, si deve fare!

Subito 3-2, alla quinta occasione sul servizio Nadal, finalmente, il contro break: 3-3.

A zero Roger tiene la sua battuta che così mette per la prima volta la testa avanti nel set decisivo. Nell’ottavo game si spinge perfino 0-40, ma le vite di Nadal, ora è ufficiale, sono molte di più di quelle dei gatti. Le annulla tutte, si procura anche una palla del 4-4, ma Roger non ci sta. Ancora una palla break, ancora parità.

Ma è sulla successiva parità che si gioca il punto più bello del torneo. 26 colpi.

Il terreno prediletto di Nadal, quello degli scambi prolungati. Ma non oggi. E’ a questo punto che a Roger tornano in mente le parole del suo coach prima della partita:

«Non pensare a Rafa. Pensa solo a colpire la palla, non occuparti del tuo avversario. Gioca libero, come se il tuo avversario non esistesse»

In ogni colpo i due mettono tutto quello che hanno. Fosse pugilato sarebbe come se entrambi i pugili tirassero il gancio decisivo, a cui tuttavia l’avversario non reagisce andando al tappeto, ma tirandone uno più forte ancora. Questo per 25 colpi.

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Ma il ventiseiesimo, un dritto lungolinea in spaccata di Roger, è un vincente che gli consegna l’ennesima palla break. Che Nadal annullerà con un ace d’accordo, ma quel punto da 26 colpi è una sorta di scambio simbolico: chi ha vinto quello deve prevalere.

E alla palla break successiva è 5-3 Federer, che può chiudere partita e torneo.

Ma Rafa di vite forse non ne ha nemmeno ventuno, ma ventotto o trentacinque, perché in un amen si invola 15-40.

La prima palla break Roger la annulla con un ace, la seconda con un dritto vincente inside out. Sulla parità altro servizio vincente e primo match point, che però non sfrutta.

Al secondo match point, Roger serve centrale, sul rovescio di Rafa, che risponde corto in mezzo al campo. Roger raccoglie di dritto e incrocia stretto, Nadal non è in grado di intercettare la pallina. Ma chiama il falco.

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E si, perché il destino quando decide di attuare un piano bellissimo, ci va fino in fondo.

Lo vuoi uno slam dopo cinque anni e dopo uno stop di sei mesi? E allora in finale incontri la tua bestia nera, che dovrai battere su un tema tattico col quale ti ha sempre demolito e il match point verrà sancito da quella tecnologia che hai sempre detestato.

Ma il falco sentenzia che il dritto a uscire stretto è atterrato in piena riga.

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Game, set, match, Federer!

Sugli spalti della Rod Laver Arena e a casa davanti alla tv le lacrime che saranno scese avranno riempito un fiume, perché in onda è andato un avvenimento che è già un film.

E il discorso di Roger alla cerimonia di premiazione riflette in pieno il significato di favola che si è appena compiuta.

Rivolgendosi a Nadal dice:

“Penso a qualche mese fa, quando ti sono venuto a trovare a Maiorca: io praticamente camminavo su una gamba sola e anche tu non stavi benissimo. Abbiamo inaugurato la tua accademia e fatto qualche palleggio coi ragazzini, mai ci saremmo sognati di ritrovarci qui a giocarci una finale slam solo pochi mesi dopo.”

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Poi va avanti:

“Oggi avrei potuto anche perdere e questo non avrebbe cambiato nulla, il mio ritorno sarebbe stato ugualmente grandissimo. Il tennis è uno sport duro, perché si vince o si perde, non c’è il pareggio. Ma ci fosse stato un pareggio, stasera sarei stato contento di accettarlo e dividerlo con Rafa.”

Quello che né Roger, né nessuno in quel momento immagina, è che quella vittoria, che rimarrà la più inaspettata e quindi la più dolce di sempre, è stato solo il preludio a una stagione che rimarrà fra le sue più vincenti in assoluto. Stagione nella quale vincerà un totale di sette tornei (mai così tanti dal 2007) e che chiuderà con un bilancio di 52 vittorie e 5 sole sconfitte, due delle quali in partite dove comunque era arrivato a match point.

Vincerà il suo ottavo Wimbledon, diventando il tennista uomo più vincente a Church Road. E, non ultimo, batterà il suo eterno rivale Nadal altre tre volte e sempre abbastanza nettamente per due set a zero.

La chiave di quei successi? Il rovescio coperto aggressivo, la sua arma in più!

E qui stavolta facciamo un passo in avanti di dodici mesi. Torniamo alla finale del 2018. Il rovescio coperto, pensato innanzitutto per arginare Nadal, è ormai un’arma letale utilissima con tutti gli avversari, e Cilic non fa eccezione.

Strappato con le unghie l’1-0 del set decisivo, ai vantaggi Roger vince i due giochi successivi, salendo 3-0. Cilic accorcia sul 3-1, ma il body language di entrambi è ormai piuttosto chiaro.

Federer appare consapevole di aver corso un grossissimo pericolo e di esserne uscito illeso. Cilic di aver visto passare un bel treno per la gloria e di non esserci salito per tempo.

4-1 Roger, che torna a tenere un servizio a zero dopo tantissimo tempo e ulteriore break al gioco successivo. Sul 5-1 la Storia si respira ovunque alla Rod Laver Arena. 40-0, seconda di servizio vincente. Ma a decidere se è buona o meno sarà ancora il falco.

A differenza dell’anno prima quando tutti hanno trattenuto il respiro tremando di speranza o paura a seconda della fazione di appartenenza, quest’anno la chiamata di Cilic lascia poca suspense.

Non è un game in bilico: siamo 40-0 e anche un eventuale doppio fallo lascerebbe a Roger altri due match point consecutivi sulla sua battuta.

Ma non ce n’è bisogno. La tecnologia è ancora amica della Svizzera.

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Sono 20 Slam. 20.

E non è detto sia l’ultimo.

Quel gran burlone di Andy Roddick scriverà in un tweet:

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Se Roger arriva a 21, il suo conto titoli slam potrebbe legalmente bere in America”, facendo riferimento evidentemente all’età minima che occorre negli States per poter acquistare alcool, a quanto pare più complicato che acquistare armi, ma questa è un’altra storia e non la affrontiamo di certo qui ora.

Parlando di storia, quella con la S maiuscola, invece.

Su un palcoscenico meno prestigioso, Rotterdam, raggiungendo il traguardo minimo della semifinale prima, e completando l’opera vincendo il torneo poi, Roger Federer torna numero 1 al mondo quattordici anni dopo la prima volta, cinque anni e mezzo dopo l’ultima ed a quasi 37 anni. Come dite? E’ un record? Che domande!

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L’arma in più (parte prima)

Sei rovesci coperti. Sei di fila, all’interno di uno scambio al cardiopalma il cui esito è stato forse decisivo nella finale degli Australian Open

Sei rovesci coperti. Sei di fila, all’interno di uno scambio al cardiopalma il cui esito è stato forse determinante per le sorti dell’intero match.

Game d’apertura del quinto set della finale degli Australian Open 2018.

Federer è al servizio dopo aver perso malamente gli ultimi due turni di battuta del quarto. Un set che sembrava vederlo lanciato a vele spiegate verso il sesto trionfo a Melbourne e l’incredibile quota di venti Slam, 20, vinti in carriera. Invece poi qualcosa, come in un maledetto incantesimo, si è spezzato. A Roger non è entrata più una prima di servizio nemmeno a pagarla e Cilic, il suo avversario, sembra essere tornato il clone del giocatore da playstation che tanto male gli aveva fatto a New York nel 2014.

L’inerzia del quinto set è quindi tutta a favore del croato. Vincere il game d’apertura è fondamentale per Roger. Primo, per non andare pronti via sotto di un break, ma soprattutto per interrompere un’emorragia di cinque giochi consecutivi a favore di Cilic.

30-0…dai che forse questo gioco va via facile. 30 pari. Macché. 40-30: dai, dai che lo portiamo a casa!

40 pari. Niente

La facilità con cui è andato via liscio il primo set ora è solo un miraggio.

Vantaggio Cilic: mio Dio, mi sa che questa volta non ce la fa.

Anche gli dei possono cadere dopotutto. Ma si dice anche che la fortuna aiuti gli audaci.

E tanta, tantissima fortuna viene in soccorso di Roger sulla palla break. Su una seconda di servizio non certo irresistibile Cilic affossa in rete la risposta di dritto. Ha un’altra opportunità Marin, ma Roger la annulla con un’ottima prima su cui il croato stecca la risposta e poco ha da recriminare. Quindi è Federer ad avere una seconda chance per tenere il servizio. Lo scambio finisce subito sulla diagonale di rovescio di Roger e partono sei rovesci coperti, l’ultimo dei quali gli regala il game, il tutto certificato dal grande nemico: l’occhio di falco.

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Il rovescio coperto dunque. E qui è doveroso fare un passo indietro.

Dodici mesi prima, sempre Melbourne, sempre Australian Open. Roger, che va per i 36, rientra alle competizioni ufficiali dopo sei mesi di stop. Dopo una stagione, il 2016, che per la prima volta dal 2000 non lo vede vincere nemmeno un torneo e che per la prima volta dal 2002 lo vede terminare l’anno fuori dalla top ten, precisamente al numero 17. Nelle tante interviste che rilascia, Roger si dice contento di esserci, di sentirsi ottimista e in ottima forma. Ma paiono molto più dichiarazioni diplomatiche di chi non può dire diversamente che non un reale convincimento.

E i primi due turni sembrano avvalorare questa ipotesi. Contro Jurgen Melzer, veterano austriaco oramai sprofondato fuori dai primi 200 del mondo, cede addirittura un parziale. Al secondo turno, contro lo sconosciuto Rubin, si impone tre set a zero, ma senza dare la sensazione di possedere un tennis brillantissimo. E il terzo turno, contro il ceco Tomas Berdych, in quel momento numero 10 del ranking e contro il quale più volte in passato aveva perso, per più di qualcuno ha l’aria di essere il capolinea.

Invece è una lezione di tennis del Maestro svizzero.

Qui si ammirano per la prima volta una sequenza di rovesci coperti di rara bellezza e non inferiore efficacia. 62-64-64 in meno di due ore. Berdych alla fine dirà:

“Questa partita non avrei voluto giocarla, ma vederla, perché deve essere stato uno spettacolo veder giocare così Roger oggi!”

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Agli ottavi di finale Federer trova un altro avversario di spessore, il giapponese Kei Nishikori. Parte malissimo, 0-4, ma poi recupera e il set finisce al tie-break, che tuttavia perde.

Tanta fatica per perdere comunque il set? Non valeva la pena lasciarlo andare e risparmiare energie per il resto del match, visto che non si sa quanta autonomia possa avere?

Nemmeno per sogno: quel recupero gli ha dato la fiducia di potersela giocare eccome contro un top 5. Federer vince i successivi due parziali mostrando grande autorità e perde il quarto più per sue leggerezze e distrazioni, che per un reale ritorno dell’avversario. Al quinto e decisivo set prende subito un break di vantaggio e chiude poco dopo 63, lanciandosi in un insolito urlo liberatorio verso il suo angolo.

“Ci sono anch’io e me la gioco fino alla fine, non sono venuto qui a fare la comparsa o il tour di addio!”

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Nei quarti di finale, a sorpresa, anziché il numero 1 Andy Murray, Roger affronta il russo di Germania Misha Zverev, giustiziere dello scozzese negli ottavi. 62-75-62, mera formalità e pass per le semifinali conquistato. Ad attenderlo c’è il connazionale e amico Stan Wawrinka, che ha sempre battuto su superfici diverse dalla terra rossa, ma che ora va considerato leggermente favorito su Roger, visto che, oltre a essere numero 4, è reduce dalla grande vittoria agli US Open del settembre scorso. E invece, nuovamente, Roger impone la sua legge e con grande autorevolezza vince i primi due set: 75-63. Sembra il preludio a un’altra cavalcata trionfale.

Come può recuperare Wawrinka contro il suo amico che gioca in questo modo?

Con un head to head che in quel momento dice 18-3 Roger e 14-0 se si considerano le partite non su terra?

Invece Stan the Man non ci sta. Non sarà mai nemmeno paragonabile al suo più illustre connazionale, ma anche lui è un Campione con la C maiuscola. E’ arrivato relativamente tardi a certi traguardi, ma vincere proprio qui in Australia nel 2014 lo ha fatto svoltare a livello di mentalità. Non è un avversario qualunque che, una volta messo sotto, non si rialza più. E’ sicuramente battibile, ma finché il giudice di sedia non pronuncia le fatidiche tre parole: “game, set and match…” non molla niente. E risale, eccome se risale. Il terzo set va via in un lampo. 61 Wawrinka. Il quarto è più equilibrato ma è sempre Stan a vincerlo, per 64. Ci si gioca tutto al quinto, ancora una volta. Roger però avanti due set a zero ha perso solo due volte in carriera e non è certo oggi che vuole sporcare questa statistica. Ci sono tante cose, anche esterne a lui, che lo vogliono vincitore. Djokovic, il robot ingiocabile di un anno prima, che esce al secondo turno. Il già citato Murray, fresco numero 1 e autore di un finale di stagione 2016 fra i più fenomenali di sempre, che viene eliminato agli ottavi. Non può essere solo mera coincidenza.

In finale deve andarci Roger. E ci va.

Nonostante rischi al quinto, dovendo annullare una palla break. Ma poi è lui a operare il break decisivo e a chiudere per 63. Si gira ancora verso il suo angolo, non urlando come contro Nishikori, ma guardando tutti dolcemente.

“E’ tutto vero? Siamo in finale?”

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Una favola che si rispetti deve avere il suo lieto fine, si sa, ma stavolta il destino sembra essere davvero crudele. Perché chi esce vincitore dall’altra semifinale?

No, dai ragazzi non può essere vero, non fate scherzi. Ma se non superava gli ottavi in uno slam da due anni!? Ma se anche lui l’anno scorso ha preso una vacanza forzata di svariati mesi!?

No, non è uno scherzo. In finale ci arriva proprio lui: Rafael Nadal da Manacor, Maiorca, Spagna. Quello che ha battuto Roger una volta si e l’altra pure. Quello che Roger non ha mai battuto al Roland Garros, senza nemmeno andarci vicino, mentre Rafa, lui si che l’ha spodestato sul giardino di casa, Wimbledon.

Destino crudele si. Sta fuori sei mesi, rientra, contro ogni pronostico arriva in finale e chi trova, la sua nemesi? E quando lo batte questo?

Eppure c’è chi è convinto che lo spagnolo si possa battere eccome. E’ il suo coach, Ivan Ljubicic, che è giovane abbastanza da aver affrontato sia Roger che Rafa nella sua carriera. Ha una grandissima intelligenza tattica ed è lui che ha fatto compiere un bel salto di qualità al suo assistito precedente, il canadese Milos Raonic. Poi però è arrivata, a fine 2015, la chiamata di Roger, e alla Leggenda non ha potuto dire di no. Il 2016 è stato un anno disgraziato, poco o nulla delle idée di Ivan è stato possibile mettere in pratica, troppi i continui malanni fisici di Federer. Ma questo non gli ha impedito di “studiare il caso”, fare analisi, ipotizzare modi diversi di approcciare determinate situazioni di gioco. E cosa tira fuori Ivan per la finale?

Dice a Roger che può vincere facendo un passo avanti e colpendo il rovescio non in back, ma d’incontro, coperto, forte, sul dritto di Nadal.

Si, vabbé, questo ha bevuto, e anche tanto!

Ma se il 23 a 11 negli scontri diretti a favore di Rafa ha le sue fondamenta tattiche proprio sulla diagonale rovescio Roger – dritto Rafa! E questo sostiene che proprio toccando quel tasto avremo la chiave di volta del successo?

Ivan non è mai stato così serio. Tocca il tasto dolente, vero, ma è il modo di toccarlo a fare la differenza. Aggredendo anziché essere aggrediti. Colpendo con percentuali di rischio enormi e quindi accettando che si faranno non pochi errori. Se il saldo vincenti – errori sarà positivo, allora ci saranno delle chances, allora ce le giocheremo davvero con l’arma in più.

(l’arma in più continua e vi aspetta in finale per la seconda parte)

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