Sei rovesci coperti. Sei di fila, all’interno di uno scambio al cardiopalma il cui esito è stato forse determinante per le sorti dell’intero match.
Game d’apertura del quinto set della finale degli Australian Open 2018.
Federer è al servizio dopo aver perso malamente gli ultimi due turni di battuta del quarto. Un set che sembrava vederlo lanciato a vele spiegate verso il sesto trionfo a Melbourne e l’incredibile quota di venti Slam, 20, vinti in carriera. Invece poi qualcosa, come in un maledetto incantesimo, si è spezzato. A Roger non è entrata più una prima di servizio nemmeno a pagarla e Cilic, il suo avversario, sembra essere tornato il clone del giocatore da playstation che tanto male gli aveva fatto a New York nel 2014.
L’inerzia del quinto set è quindi tutta a favore del croato. Vincere il game d’apertura è fondamentale per Roger. Primo, per non andare pronti via sotto di un break, ma soprattutto per interrompere un’emorragia di cinque giochi consecutivi a favore di Cilic.
30-0…dai che forse questo gioco va via facile. 30 pari. Macché. 40-30: dai, dai che lo portiamo a casa!
40 pari. Niente
La facilità con cui è andato via liscio il primo set ora è solo un miraggio.
Vantaggio Cilic: mio Dio, mi sa che questa volta non ce la fa.
Anche gli dei possono cadere dopotutto. Ma si dice anche che la fortuna aiuti gli audaci.
E tanta, tantissima fortuna viene in soccorso di Roger sulla palla break. Su una seconda di servizio non certo irresistibile Cilic affossa in rete la risposta di dritto. Ha un’altra opportunità Marin, ma Roger la annulla con un’ottima prima su cui il croato stecca la risposta e poco ha da recriminare. Quindi è Federer ad avere una seconda chance per tenere il servizio. Lo scambio finisce subito sulla diagonale di rovescio di Roger e partono sei rovesci coperti, l’ultimo dei quali gli regala il game, il tutto certificato dal grande nemico: l’occhio di falco.
Il rovescio coperto dunque. E qui è doveroso fare un passo indietro.
Dodici mesi prima, sempre Melbourne, sempre Australian Open. Roger, che va per i 36, rientra alle competizioni ufficiali dopo sei mesi di stop. Dopo una stagione, il 2016, che per la prima volta dal 2000 non lo vede vincere nemmeno un torneo e che per la prima volta dal 2002 lo vede terminare l’anno fuori dalla top ten, precisamente al numero 17. Nelle tante interviste che rilascia, Roger si dice contento di esserci, di sentirsi ottimista e in ottima forma. Ma paiono molto più dichiarazioni diplomatiche di chi non può dire diversamente che non un reale convincimento.
E i primi due turni sembrano avvalorare questa ipotesi. Contro Jurgen Melzer, veterano austriaco oramai sprofondato fuori dai primi 200 del mondo, cede addirittura un parziale. Al secondo turno, contro lo sconosciuto Rubin, si impone tre set a zero, ma senza dare la sensazione di possedere un tennis brillantissimo. E il terzo turno, contro il ceco Tomas Berdych, in quel momento numero 10 del ranking e contro il quale più volte in passato aveva perso, per più di qualcuno ha l’aria di essere il capolinea.
Invece è una lezione di tennis del Maestro svizzero.
Qui si ammirano per la prima volta una sequenza di rovesci coperti di rara bellezza e non inferiore efficacia. 62-64-64 in meno di due ore. Berdych alla fine dirà:
“Questa partita non avrei voluto giocarla, ma vederla, perché deve essere stato uno spettacolo veder giocare così Roger oggi!”
Agli ottavi di finale Federer trova un altro avversario di spessore, il giapponese Kei Nishikori. Parte malissimo, 0-4, ma poi recupera e il set finisce al tie-break, che tuttavia perde.
Tanta fatica per perdere comunque il set? Non valeva la pena lasciarlo andare e risparmiare energie per il resto del match, visto che non si sa quanta autonomia possa avere?
Nemmeno per sogno: quel recupero gli ha dato la fiducia di potersela giocare eccome contro un top 5. Federer vince i successivi due parziali mostrando grande autorità e perde il quarto più per sue leggerezze e distrazioni, che per un reale ritorno dell’avversario. Al quinto e decisivo set prende subito un break di vantaggio e chiude poco dopo 63, lanciandosi in un insolito urlo liberatorio verso il suo angolo.
“Ci sono anch’io e me la gioco fino alla fine, non sono venuto qui a fare la comparsa o il tour di addio!”
Nei quarti di finale, a sorpresa, anziché il numero 1 Andy Murray, Roger affronta il russo di Germania Misha Zverev, giustiziere dello scozzese negli ottavi. 62-75-62, mera formalità e pass per le semifinali conquistato. Ad attenderlo c’è il connazionale e amico Stan Wawrinka, che ha sempre battuto su superfici diverse dalla terra rossa, ma che ora va considerato leggermente favorito su Roger, visto che, oltre a essere numero 4, è reduce dalla grande vittoria agli US Open del settembre scorso. E invece, nuovamente, Roger impone la sua legge e con grande autorevolezza vince i primi due set: 75-63. Sembra il preludio a un’altra cavalcata trionfale.
Come può recuperare Wawrinka contro il suo amico che gioca in questo modo?
Con un head to head che in quel momento dice 18-3 Roger e 14-0 se si considerano le partite non su terra?
Invece Stan the Man non ci sta. Non sarà mai nemmeno paragonabile al suo più illustre connazionale, ma anche lui è un Campione con la C maiuscola. E’ arrivato relativamente tardi a certi traguardi, ma vincere proprio qui in Australia nel 2014 lo ha fatto svoltare a livello di mentalità. Non è un avversario qualunque che, una volta messo sotto, non si rialza più. E’ sicuramente battibile, ma finché il giudice di sedia non pronuncia le fatidiche tre parole: “game, set and match…” non molla niente. E risale, eccome se risale. Il terzo set va via in un lampo. 61 Wawrinka. Il quarto è più equilibrato ma è sempre Stan a vincerlo, per 64. Ci si gioca tutto al quinto, ancora una volta. Roger però avanti due set a zero ha perso solo due volte in carriera e non è certo oggi che vuole sporcare questa statistica. Ci sono tante cose, anche esterne a lui, che lo vogliono vincitore. Djokovic, il robot ingiocabile di un anno prima, che esce al secondo turno. Il già citato Murray, fresco numero 1 e autore di un finale di stagione 2016 fra i più fenomenali di sempre, che viene eliminato agli ottavi. Non può essere solo mera coincidenza.
In finale deve andarci Roger. E ci va.
Nonostante rischi al quinto, dovendo annullare una palla break. Ma poi è lui a operare il break decisivo e a chiudere per 63. Si gira ancora verso il suo angolo, non urlando come contro Nishikori, ma guardando tutti dolcemente.
“E’ tutto vero? Siamo in finale?”
Una favola che si rispetti deve avere il suo lieto fine, si sa, ma stavolta il destino sembra essere davvero crudele. Perché chi esce vincitore dall’altra semifinale?
No, dai ragazzi non può essere vero, non fate scherzi. Ma se non superava gli ottavi in uno slam da due anni!? Ma se anche lui l’anno scorso ha preso una vacanza forzata di svariati mesi!?
No, non è uno scherzo. In finale ci arriva proprio lui: Rafael Nadal da Manacor, Maiorca, Spagna. Quello che ha battuto Roger una volta si e l’altra pure. Quello che Roger non ha mai battuto al Roland Garros, senza nemmeno andarci vicino, mentre Rafa, lui si che l’ha spodestato sul giardino di casa, Wimbledon.
Destino crudele si. Sta fuori sei mesi, rientra, contro ogni pronostico arriva in finale e chi trova, la sua nemesi? E quando lo batte questo?
Eppure c’è chi è convinto che lo spagnolo si possa battere eccome. E’ il suo coach, Ivan Ljubicic, che è giovane abbastanza da aver affrontato sia Roger che Rafa nella sua carriera. Ha una grandissima intelligenza tattica ed è lui che ha fatto compiere un bel salto di qualità al suo assistito precedente, il canadese Milos Raonic. Poi però è arrivata, a fine 2015, la chiamata di Roger, e alla Leggenda non ha potuto dire di no. Il 2016 è stato un anno disgraziato, poco o nulla delle idée di Ivan è stato possibile mettere in pratica, troppi i continui malanni fisici di Federer. Ma questo non gli ha impedito di “studiare il caso”, fare analisi, ipotizzare modi diversi di approcciare determinate situazioni di gioco. E cosa tira fuori Ivan per la finale?
Dice a Roger che può vincere facendo un passo avanti e colpendo il rovescio non in back, ma d’incontro, coperto, forte, sul dritto di Nadal.
Si, vabbé, questo ha bevuto, e anche tanto!
Ma se il 23 a 11 negli scontri diretti a favore di Rafa ha le sue fondamenta tattiche proprio sulla diagonale rovescio Roger – dritto Rafa! E questo sostiene che proprio toccando quel tasto avremo la chiave di volta del successo?
Ivan non è mai stato così serio. Tocca il tasto dolente, vero, ma è il modo di toccarlo a fare la differenza. Aggredendo anziché essere aggrediti. Colpendo con percentuali di rischio enormi e quindi accettando che si faranno non pochi errori. Se il saldo vincenti – errori sarà positivo, allora ci saranno delle chances, allora ce le giocheremo davvero con l’arma in più.
(l’arma in più continua e vi aspetta in finale per la seconda parte)