1h59:40.2

Dal blog di Orlando Pizzolato

Scrivo anch’io qualcosa. Ho voluto dapprima metabolizzare l’evento per rivedere, ripensare, valutare, e trarre le conclusioni.
Ho deciso di andare a Vienna poco più di 24 ore prima che Kipchoge partisse con la sua prova, e ci sono andato perché non volevo perdermi un momento particolare nella storia del podismo. Né per criticare, né per esaltare. Solo per essere spettatore e poter commentare “dopo aver toccato con mano”.
Ci sono andato sapendo che non era una gara. Sapendo che non era una competizione. Sapendo che il risultato non sarebbe stato omologato. E sapendo anche che poteva non farcela, perché il risultato non era affatto semplice e per nulla scontato.
Le premesse erano queste, quindi su queste non aveva e non ha tuttora senso soffermarsi. O accetti che siano così, o non ha senso parlarne.

Qui non parlo dell’evento mediatico e di marketing, peraltro ben riuscito. Non è compito mio. Di questo discuterà chi avrà voce in capitolo, e a mio modesto parere qualche brand concorrente potrà solo criticare, mosso da invidia per non essere arrivato prima all’idea.

Dal punto di vista tecnico, non dimentichiamo che l’obiettivo era uno solo: correre la distanza di maratona, e cioè 42.195 metri, sotto le due ore. Abbattere quel limite, fisico e psicologico. Fermare il cronometro prima di vedere il 2 nello spazio delle ore.

Ho parlato con gli atleti che l’avrebbero accompagnato, tutti eccitati di essere parte di qualcosa che, se fosse riuscito, avrebbe lasciato il segno. Tutti profondamente ammaliati dalla personalità di Kipchoge, che resta una persona modesta “nonostante tutto”. E quel “tutto” è davvero tanto, perché Eliud non ha nient’altro da chiedere al mondo della maratona: ha vinto tutto quel che conta. Ha battuto praticamente tutti gli avversari e non necessita di diventare più ricco di quanto già lo sia. Ha “semplicemente” deciso di sfidare sé stesso e, essendo il più grande maratoneta, ha meritato tutto ciò che gli è stato messo a disposizione.

A costo di sembrare arrogante (ma non lo sono), credo che sulla sua impresa possano esprimersi con diritto solo coloro che sanno cosa vuol dire correre al ritmo che ha corso lui per 42km. Solo coloro che hanno provato a correre almeno uno di quei 42 km al suo stesso ritmo. E sfido chiunque di loro a minimizzare l’impresa.
Ma l’ha fatto con le lepri. Sì, l’ha fatto con le lepri.
Con i rifornimenti passati al volo. Certamente.
Anche con le scarpe super-ultra-mega-arci. Certamente.
Anche con le linee sull’asfalto per correre 42195m esatti. Sì.
Anche con l’automobile, il cruise control e la luce proiettata a terra. Sì.
L’ha fatto con tutto questo, perché non dimentichiamo che l’obiettivo era fermare il cronometro prima delle 2 ore. Tutto il resto non contava. Contava abbattere quella barriera correndo con le proprie gambe, senza percorrere un metro in più o in meno, su un percorso certificato, in condizioni ideali.

A Vienna ho visto un uomo correre impeccabile, elegante, sciolto, una bellezza da ammirare. Deciso, concentrato, rilassato. E poi quel sorriso negli ultimi chilometri, quello sguardo impenetrabile che si scioglie nella certezza di chi ha fatto bene ciò per cui lavora da tanto.

Sono lontani i tempi in cui correvo anch’io a quel ritmo, anche se per molti meno chilometri, ma so cosa significa. Io mi sono emozionato.

Il limite ora è 1h59:40.2: è là per essere superato. Con lepri, rifornimenti, scarpe supersoniche, cruise control, luci varie e linee da seguire. Certo! A parità di condizioni.

La strada è aperta. Avanti il prossimo.

La forza della mente

“Avere gli spettatori dalla tua parte aiuta, ma se non è così devi trovare il modo di superare la difficoltà. Quando la folla gridava “Roger” io sentivo “Novak”. È allenamento mentale… e poi Roger e Novak sono simili!”

Roger Federer e Novak Djokovic stanno ancora giocando la loro epica battaglia di cinque set e cinque ore durante la finale maschile di Wimbledon. Sebbene si sia molto discusso sull’introduzione del tie-break in caso di 12 pari nel set decisivo, sono già trascorsi 253 incontri (di singolare maschile e femminile) dall’inizio del torneo e nessuno ha ancora richiesto l’utilizzo della nuova regola. Quante sono le probabilità che trovi dunque applicazione durante l’atto conclusivo, la partita 254?

In realtà era scritto nelle stelle che questa novità caratterizzasse proprio la partita più importante, un evento tra i più imprevedibili a cui molti di noi abbiano mai potuto assistere.

Eppure c’era chi aveva previsto tutto.

Novak Djokovic ha già giocato nella sua mente, prima di entrare in campo, i possibili scenari di questa finale.

Il serbo è da sempre un appassionato sostenitore dell’uso delle “immagini” prima della competizione. Ha iniziato la pratica fin da bambino: la sua prima allenatrice, Jelena Gencic, lo incoraggiava a visualizzare le proprie mosse sul campo ascoltando musica classica.

L’overture 1812 di Cajkovskij era una delle sue arie preferite e la Gencic gli disse che nei momenti critici avrebbe dovuto ricordare quella musica per sentirsi immediatamente più forte. All’epoca Djokovic aveva solo 12 anni – la sua Serbia era sotto l’attacco delle bombe – ma un giorno l’allenatrice gli fece sollevare un piccolo trofeo facendogli esclamare:

Sono Novak Djokovic, ho vinto Wimbledon.

Dopo aver battuto Federer a Wimbledon, Djokovic ha rivelato quanto confidi molto nella tecnica della visualizzazione. Una tecnica che gli ha permesso di “trasformare” il rumore di sottofondo dei 15.000 spettatori del Center Court che inneggiavano al suo rivale. Nella sua testa, ha spiegato, l’incitamento “Roger Roger” è diventato “Novak Novak”. “Sembra sciocco, ma è così”, ha dichiarato il serbo mentre il brusio riempiva la sala stampa. Novak è rimasto imperturbabile prima di concludere dicendo

“Provo a giocare la partita nella mia mente prima di andare in campo. Cerco sempre di immaginarmi vincitore. Penso che ci sia un potere in tutto questo.”

Djokovic non è il solo tra gli sportivi a praticare la tecnica della visualizzazione pre-gara.

Wayne Rooney, calciatore, cercava di immaginare quale fosse nei dettagli il kit da indossare il giorno della partita. Anche lui aveva lavorato sulle immagini, senza rendersene conto, sin da quando era un bambino.

“Per avere un “ricordo” ancor prima della partita”.

La tecnica della visualizzazione ha giocato un ruolo fondamentale anche per il ciclista Mark Cavendish. Il potente velocista studiava gli ultimi 10 chilometri di ogni tappa con ossessiva dovizia di particolari sostenendo di conoscere ogni singola buca di quel tratto finale di strada.

Affinava la tecnica giocando a Scrabble e a Sudoku ed era solito credere che il suo battito cardiaco nei momenti concitati della gara fosse più basso di quello dei suoi rivali proprio grazie al fatto che aveva già immaginato tutto quello che poteva accadere.

La logica di Cavendish potrebbe sembrare folle: in che modo il Sudoku può aiutarti in uno sprint al Tour de France? Ma questa teoria è supportata dalla ricerca.

Prima delle Olimpiadi invernali del 1980 a Lake Placid, ricercatori sovietici finanziati dal governo hanno testato gli atleti su quattro differenti programmi, che variavano dal 100% di allenamento fisico alla combinazione di 25% di allenamento fisico e 75% di allenamento mentale. I risultati suggerirono che maggiore era l’allenamento mentale, migliore sarebbe stata la prestazione. Uno studio del 1992 condotto su alcuni tuffatori dal trampolino ha poi dimostrato che risolvere problemi mentali astratti come i puzzle poteva essere molto utile a raggiungere il successo nelle proprie prestazioni.

L’utilizzo di queste tecniche non ha riguardato solamente atleti professionisti.

Uno studio del 2001, condotto dalla Cleveland Clinic Foundation in Ohio, ha scoperto che solamente pensando di compiere degli esercizi per i bicipiti, cinque volte alla settimana, per due settimane, i soggetti coinvolti hanno aumentato la propria forza del 13,5%.

Alcuni soggetti poi sono più bravi a visualizzare rispetto ad altri: spesso si ha un vantaggio se da bambino si avevano degli amici immaginari.

Inoltre, più dettagli si riesce a fornire – il rumore della folla, gli odori all’interno dello stadio, la sensazione di morbidezza del manto erboso – più decisive saranno le prove mentali.

Anche il gusto può essere un fattore: forse è per questo che Djokovic ha mangiato alcuni fili d’erba sul campo centrale dopo aver vinto.

Il giorno prima della finale di Wimbledon, Novak ha pubblicato una foto su Twitter

è l’alba, è scalzo, indossa solamente un paio di pantaloni da jogging e cammina attraverso un campo di erba alta accarezzandone gli steli.

Scrive:

#gladiator moment

Avremmo dovuto immaginarlo che dopo cinque set e cinque ore avrebbe trionfato lui.

Questo articolo è una libera traduzione da

“A little mental rehearsal is a huge help on sport’s biggest stages” by Tim Lewis (Sportblog – The Guardian)