Mai più

Impossibile cancellare dalla mente quella sera di maggio di 33 anni fà.
Era stato un giorno bellissimo, in trepidante attesa della finale,
contavo le ore, pochi minuti fecero a pezzi il sogno mentre affondavo nel divano di casa, troppo piccolo forse per comprendere realmente il peso dell’errore a cui niente e nessuno dei miei beniamini malcapitati
avrebbe potuto porre rimedio per il resto delle proprie esistenze.
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Quelle esultanze, quel giro di campo con la coppa si potevano e si dovevano evitare,
lo sanno perfettamente oggi quei miei beniamini
a cui la coscienza non ha dato tregua, ne sono sicuro, in questi lunghi anni.
Quella coscienza che continua a mancare a coloro i quali non perdono occasione per vomitare fango sulla memoria delle vittime, la cui sola colpa è stata di trovarsi lì,
nel posto sbagliato al momento sbagliato
in trepidante attesa della finale dopo un giorno bellissimo.

In punta di piedi

Quando le luci si spengono e il silenzio è dappertutto, si fa luce il profondo attaccamento di un uomo verso tutto quello che lo ha fatto diventare grande

Quasi le due di notte, due come le luci ancora accese al Camp Nou, sul prato verde si staglia la sagoma di un uomo riluttante a lasciare quella che per 22 lunghi anni è stata la sua casa.

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Prima di far scorrere i propri pensieri, ha atteso l’uscita di tutti gli ospiti accorsi a vederlo per l’ultima volta in azione in maglia blaugrana, ed ora se ne stà lì seduto nel cerchio di centrocampo, il luogo in cui si sente più a suo agio, a piedi nudi, quasi a voler amplificare il senso di profondo contatto che lo lega al morbido terreno di questa casa che lo ha accolto ragazzino e che si appresta a salutarlo uomo vincente e di successo.

Eppure Don Andrés Iniesta che riflette sul proprio glorioso passato, in questo stadio così maestosamente vuoto, esprime un profondo senso di solitudine.

Ora che le luci si sono abbassate emerge la fragilità dell’uomo che fà di tutto per non nascondere il sincero amore verso quella maglia che ancora indossa.

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Con il cellulare in mano scatta un’ultima foto nell’oscurità, lui che è abituato a portare la luce alle stelle e a rimanere nell’ombra, ma che da quell’ombra quando è uscito ha brillato di luce propria, una su tutte la finale in Sudafrica nel 2010 contro l’Olanda, arresto e tiro e Spagna sul tetto del Mondo.

Ora è il momento di uscire però, in punta di piedi (nudi) s’intende, quasi a non far sentire il rumore dei passi che lo porteranno lontano da qui, da questo posto chiamato casa per oltre due decenni, verso il quale può essere difficile dire addio, ma che allo stesso tempo lascerà sempre una luce accesa, il faro verso il suo ritorno.

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Mucha suerte Don Andrés

 

 

 

 

Il posto più bello del mondo

Esiste un posto in Italia a cui tutti noi dovremmo essere eternamente grati, un comune di 40 mila abitanti in provincia di Ancona, nelle Marche, proclamato Città europea dello Sport per il 2014.

Il nome di questo posto è Jesi e la sua storia sportiva è indissolubilmente legata a quella della scherma, di cui rappresenta una sorta di Silicon Valley tanto da fregiarsi del titolo di città più medagliata al mondo nella storia delle Olimpiadi con un invidiabile palmarès di 23 medaglie:

14 d’oro, 3 d’argento e 6 di bronzo.

Nove di queste hanno un nome e un cognome che equivalgono a nominare l’atleta italiana più medagliata di sempre: Valentina Vezzali.

Valentina non ha bisogno di presentazioni, è semplicemente un’atleta impressionante, una cannibale, la chiamano “il cobra”, è un fascio di nervi e muscoli letteralmente protesi in avanti verso il raggiungimento del solo obiettivo contemplabile: la vittoria.

Non è simpatica Valentina, il suo è un carattere introverso, ossessionato dai limiti da superare, come lei stessa ama definirsi è un killer che non lascia agli altri nemmeno le briciole.

Vincere mi viene naturale. Da quando ho cominciato a fare gare ho vinto tutto. È nel mio dna. Quando metto la maschera e tiro di fioretto sento l’adrenalina, le emozioni, la grinta, la rabbia, la felicità, che solo lo sport sa dare. Ogni volta che le provo, desidero risentirle ancora.

Dietro questa feroce determinazione si nasconde però una fragilità dettata da un’adolescenza difficile in cui ha dovuto fronteggiare la perdita di papà Lauro quando aveva soli 15 anni, una perdita dolorosa in parte compensata dalla presenza di mamma Enrica, pronta a giocare da quel momento un ruolo fondamentale come donna energica, ma sempre al fianco della propria figlia nella vita fuori e dentro la scherma.

Ed è proprio tra le braccia di mamma Enrica che si conclude la favola che ci apprestiamo a raccontare.

L’Olimpiade è quella di Londra, la quinta per Valentina che appena il giorno prima era stata portabandiera della spedizione azzurra. L’Excel Arena ha da poco visto fallire il suo assalto al quarto oro consecutivo nel fioretto, un addio meno doloroso per noi italiani visto che a batterla è stata Arianna Errigo, ma non altrettanto per Valentina, la sconfitta lei non riesce proprio a metabolizzarla.

Come nella vita però, che si vinca o si perda, bisogna andare sempre avanti e sulla strada per il bronzo ora Vale deve vedersela con la sudcoreana Nam.

Neanche il tempo di iniziare che la sfida è già in salita, a venti secondi dalla fine il punteggio recita Sud Corea 12 – Italia 8

Ormai non ci sono più possibilità” esclama il telecronista

13 secondi

direi che quattro stoccate in tredici secondi o sei...” o sei Valentina Vezzali appunto, 12-9

passano altri quattro secondi, l’attacco è simultaneo, la priorità è di Valentina, 12-10

Si tolgono entrambe la maschera, la Vezzali ha il viso trasfigurato dalla tensione emotiva, lo sguardo fissa un punto lontano che soltanto lei sembra sapere dove si trovi.

Vive semplicemente nel “qui e ora”

Alè, e il duello riparte

La Nam è costretta a indietreggiare in fondo alla pedana, Valentina tocca quando mancano ancora 5 secondi sul cronometro, 12-11

Si scalda tutto il pubblico, può diventare ancor più leggenda di quanto già non lo sia

Avanti, avanti, la Nam va fuori, manca un secondo soltanto ma Vale è un flash e tocca,

fantastica, spaziale, strepitosa! Ma come fà?

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Tutto il pubblico urla “Vale, Vale”, ma è già tempo di extra time.

Ora è calato un silenzio spaventoso

Chi mette a segno la stoccata vince

Ma se ti chiami Valentina Vezzali non puoi che metterla Tu a segno la Stoccata.

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Parata, risposta vincente e urlo liberatorio.

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Piegata sulle ginocchia, con la punta del fioretto che guarda verso l’alto,

parte un bacio alla pedana e uno verso il pubblico che ha assistito a qualcosa di

inenarrabile.

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La grandezza di un atleta e dei suoi valori umani si misura ancor più dai momenti difficili che da quelli in cui le cose vanno per il verso giusto.

E’ stato difficilissimo, ho tirato col cuore e alla fine la medaglia l’ho portata a casa. Mi dispiace non aver tirato fuori quello che potevo quando dovevo, ma la scherma è fatta così e chi vince ha sempre ragione.

Piange Valentina e per nascondere le lacrime e il suo lato più fragile sceglie le braccia di mamma Enrica, sceglie il posto più bello del mondo.

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Come se fossimo Ayrton

L’articolo che leggerete non è mio, mi ci sono imbattuto quasi per caso nelle mie letture in rete, non avrei saputo rendere omaggio alla memoria di Ayrton meglio di così, io che quando era in vita non avevo compreso appieno la sua grandezza come uomo prima ancora che come pilota.

“Che strano il paddock, me lo ricordavo diverso.
C’è un gran rumore, ma non proviene dai motori. Dicono si chiamino hospitality, strutture enormi, colorate e chiassose con un sacco di gente danarosa dentro che di formula 1 non ne capisce granché.

Me li ricordo diversi anche i box; erano sporchi, a terra trovavi sempre olio e dovevi stare attento a non inciampare in qualche chiave inglese lasciata lì da uno dei meccanici.
Ora sono pulitissimi, perfetti, sembrano sale operatorie; sono anche salito in macchina, mi sono tolto uno sfizio, su quella rossa, proprio quella che ai miei tempi non potei guidare mai.

Si sta davvero comodi ora, lo sterzo è leggerissimo, ergonomico, ai miei tempi finivamo i gran premi con le mani distrutte, nel migliore dei casi tornavamo a casa con i calli scoppiati e nel peggiore beh, non potevi prendere in mano una lattina di birra per una settimana.

Mi manca il rumore, quello che come un pugile sguaiato ti assaliva alla schiena, devastandoti i timpani; non lo cambierei con nient’altro. Ora si sente il pubblico anche dall’abitacolo tanto è forte il silenzio. Le vibrazioni non ci sono quasi più e il collo lo si può persino riposare appoggiando la testa ai lati della scocca.

Si allenano tanto i piloti e sinceramente non ne avrebbero così bisogno; anche io mi allenavo tanto, ma nonostante ciò a fine gara ero stremato, sofferente, invecchiato.
Ora li vedo rilassati, riposati, belli; forse perchè sanno che in caso di errore hanno tantissimo asfalto da sfruttare per fermarsi o tornare in pista.

Io purtroppo tutto quello spazio non ce l’ho avuto.
E ogni tanto ci ripenso.
A quella folla di Imola, a Roland, a Schumi dietro di me e a quello sterzo che di colpo, a 300 all’ora si stacca.

Ci fosse stata una via di fuga come quelle di oggi mi sarei fermato, sarei sceso incazzato come non mai, avrei scaraventato a terra lo sterzo rotto e sarei tornato ai box in moto.
Chissà, forse avrei preso per il collo Adrian Newey urlandogli assassino; poi sarei andato da Jean Todt e gli avrei detto che avrei firmato in bianco per la Ferrari. Immediatamente.

Via, lasciamo stare, meglio scendere da questa macchina, non fa per me. A me piaceva l’odore di benzina, il rumore assordante, il pedale della frizione, il volante granitico.
A me piaceva sfiorare i muri sfidando Prost a chi aveva gli attributi più grossi.
Come diceva Gilles, ne avevo bisogno come dell’aria che respiravo.

Non c’entro nulla io con tutto ciò, e forse non c’entra nulla nemmeno la gente là fuori, sulle tribune.
Loro vogliono me, ancora. Non questo circo addomesticato.

Me ne torno lassù, a divertirmi con Gilles, Jim e gli altri.
Sapeste quanto ci fa sentire vivi l’odore di benzina.”

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(fonte http://www.storiedisport.com/come-se-fossimo-ayrton/)

Ciao Ayrton e salutami Fabio

Leggere per crescere

Amo lo sport,

sin da bambino mi piaceva da matti annotare su un diario i risultati dei principali avvenimenti sportivi del giorno, fosse calcio, tennis, basket o formula 1 aveva poca importanza, nell’era pre-digitale, questo era il mio modo per immagazzinare informazioni e la cosa mi tornava molto utile per argomentare le discussioni con gli amici e alimentare la mia passione.

La passione però non si è limitata a qualcosa di teorico, alle annotazioni sul diario e alle ore passate davanti alla tv per seguire questo o quell’avvenimento, mi è sempre piaciuto abbinare la pratica di uno sport.

E così sono arrivate le uscite in mountain-bike, le immancabili partite a calcio, ma soprattutto le giornate intere spese in un campo da tennis rimesso a nuovo grazie all’entusiasmo e alla voglia di stare insieme di un gruppo di ragazzi un pò sognatori.

Ma tutto questo evidentemente non era ancora abbastanza e così, superata la trentina, sono stato colpito da quella che io amo definire scherzosamente sindrome di Linus, la corsa e da lì in avanti non mi sono più fermato, un po’ come Forrest Gump.

Correre mi ha insegnato tanto, impegnarmi per perseguire un obiettivo con costanza e sacrificio è stato un qualcosa di profondamente appagante. Con i dovuti paragoni, seppur a debita distanza dal mondo dei protagonisti dello sport, mi sono sentito più in sintonia al loro modo di pensare, di agire, di fare tesoro dei momenti di difficoltà per raggiungere i risultati.

Ma non c’è crescita che non sia accompagnata e sostenuta da una cultura di base. Leggere libri di vario genere legati al mondo dello sport mi ha aiutato molto a diversificare il mio punto di vista, ad allenare la mente oltre che il corpo.

Ho acquisito così la capacità di considerare me stesso, che osservavo le cose da varie posizioni, con una certa obiettività.

Se non ci fossero stati i libri, se non ne avessi letti tanti, probabilmente avrei condotto un’esistenza più arida e indifferente alle cose.

Da questa grande scuola che è la lettura ho estrapolato quindi la mia personale top ten, la pubblico con l’intenzione di aggiornarla magari tra un po’ di tempo, quando avrò arricchito la libreria di nuovi testi, sarebbe bello anche grazie ai vostri consigli

10. La corsa segreta (Tyler Hamilton)

9. Nati per correre (Adharanand Finn)

8. La voce del ghiaccio (Simone Moro)

7. K2, la verità (Walter Bonatti)

6. A perdifiato (Mauro Covacich)

5. Deserti (Carla Perrotti)

4. Dallo scudetto ad Auschwitz (Matteo Marani)

3. Non dirmi che hai paura (Giuseppe Catozzella)

2. Open (Andre Agassi)

1. L’arte di correre (Murakami Haruki)

 

Buona lettura a tutti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’uomo che sapeva volare

Dedalo, Icaro, Leonardo, da sempre l’uomo ha cullato il grande sogno di volare con la naturalezza degli uccelli, di sperimentarlo sulla propria pelle per cambiare le prospettive al mondo, come recita uno dei più grandi capolavori di Battiato.

Venti anni fa esatti ci lasciava l’uomo che per primo aveva imparato a volare davvero, Patrick De Gayardon de Fenoyl.

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Una vita spesa a spostare sempre più in là il limite umano attraverso un maniacale senso di ricerca, tanto da meritarsi il famoso claimNo Limits” da parte della nota marca di orologi Sector

L’estremo è ricerca. Del limite da superare, della meta più lontana che un uomo può proporsi di raggiungere. E, una volta che l’ha raggiunta, l’estremo diventa un ulteriore limite, una meta ancor più lontana.

Un’infanzia difficile alle spalle, la madre muore in un incidente stradale quando ha solo due anni, praticamente non conosce mai il padre e viene cresciuto dai nonni a Oulins, nei dintorni di Parigi. Una passione fuori dal comune per il volo, sia esso con paracadute, prima, o base jumping (il lancio da basi fisse) dopo.

Il rischio per sentirsi vivo, una conseguenza, forse.

Se il lancio nel 1992 dal Santo Angel (Venezuela), la cascata più alta del mondo (979 metri) è di per sé spettacolare, suggestivo è il tuffo dall’elicottero in bocca al Sòtano de Las Golondrinas, gigantesco canyon naturale in Messico.

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Gayardon entra in una sorta di pozzo profondo 376 metri e largo dai 63 ai 49 metri, aprendo il paracadute solo una volta all’interno della cavità naturale, un attimo prima del limite, ormai un marchio di fabbrica.

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Neanche il tempo di diventare uno dei pionieri dello skysurf, lanciandosi in volo sopra il Polo Nord con una tavola da surf attaccata ai piedi, che l’ostinata ricerca del limite estremo lo porta ben presto alla realizzazione di quello che sarà il simbolo con cui verrà per sempre ricordato, la tuta alare, la sua seconda pelle.

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Per realizzarla studia il volo del Petaurus breviceps, il Petauro dello zucchero, una sorta di scoiattolo con le ali che vive in Madagascar e capisce che l’ambizione e la ricerca lo porteranno presto a volare si, ma in avanti e a lungo. Ci riuscirà. Percorrerà con questa tecnica, chiamata wingflight, la ragguardevole misura di 9 km, la distanza maggiore mai percorsa dall’uomo in caduta libera.

Si tratta di volo planare, non di volo verticale, senti una strana pressione sulla schiena. In quel momento vuol dire che l’aria diventa portante. Ti senti aspirato da una ventosa gigante.

Il suo ultimo volo lo compie inconsapevolmente il 13 aprile 1998, alle Hawaii, uno dei posti più incantevoli del mondo. Il paracadute principale rimane impigliato nell’imbragatura, quello secondario si attorciglia nel principale. E’ la fine di un sogno, è l’inizio di un mito, Patrick De Gayardon, di fatto, il primo uomo capace di volare.

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Il giorno dopo la sua morte La Gazzetta dello sport lo ricordò cosi

Ci sono uomini che con le loro invenzioni hanno cambiato il nostro modo di vivere.

Altri, quello di sognare.

 

 

 

 

 

La cometa di Halley (e Zizou)

Il giorno in cui ebbi la percezione che una prestazione così, un interprete così, non li avrei mai dimenticati

9 gennaio 2000, il tanto temuto millennium bug che avrebbe dovuto produrre un vero e proprio crash informatico si è rivelato in realtà un fenomeno ampiamente marginato e circoscritto. Quello che invece non si può limitare è un altro fenomeno che va in scena alle 13 di questa domenica di inizio millennio allo stadio Tardini di Parma.

Indossa la maglia bianconera, ha il numero 21 sulle spalle e ha nell’eleganza il marchio di fabbrica. Il suo nome è Yazide Zinedine Zidane. Per tutti Zizou.

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Il suo talento non lo scopriamo di certo oggi, ma oggi è una di quelle giornate in cui ogni giocata, ogni movenza, sembra avvenire nella luce, lasciando dietro di sè una scia luminosa e avversari in un mix di estasi e impotenza.

E’ un campionario di movenze uniche, un susseguirsi di controlli e scatti eseguiti con un anticipo clamoroso. Zizou è un campione di completezza: piedi memorabili, visione di gioco panoramica e istantanea, tecnica eccelsa, forza fisica spaventosa, eleganza innata, senso della posizione assoluto.

Sa fare maledettamente bene la veronica, un colpo scritto nel suo destino.

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La veronica nel calcio è quella finta tramite la quale chi la esegue si passa la palla da un piede all’altro mentre con il corpo ruota su stesso. I francesi la chiamano roulette , gli inglesi l’hanno ribattezzata Marseille turn, proprio in onore di Zidane, che a Marsiglia è nato.

Ironia della sorte la moglie di Zizou si chiama Veronique, come a dire che il francese ha sposato un dribbling.

Oggi al Tardini Zizou è la luce che illumina ogni azione, inventa, regge il centrocampo e guida l’attacco, gioca a un livello talmente straordinario rispetto agli altri 21 uomini in campo da far sembrare normale gente del calibro di Del Piero e Thuram.

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La partita finisce 1-1, con i padroni di casa in 9 che la riacciuffano nel primo dei quattro minuti di recupero grazie a un gol da fuoriclasse di Hernan Crespo, ma poco importa, oggi ho capito che un giocatore così è come la cometa di Halley.

Proprio come lei, capace di ispirare tra un passaggio e l’altro generazioni di artisti come Pascoli, Giotto e forse anche Dante, il transito di Zizou sui campi di calcio merita una benedizione per gli occhi che vi hanno potuto assistere e la celebrazione di quel momento in cui si ha pienamente la consapevolezza delle proprie percezioni, ossia che una prestazione del genere, un interprete del genere, li rivedremo tra chissà quanto tempo.

Chissà che mondo troverà la cometa.

 

Negli occhi aperti, accese appena e spente,
morian le stelle. E Dante fu nessuno.
Terra non più, Cielo non più, ma il Niente.

Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l’Uno.

(tratto dall’ode di Giovanni Pascoli, Alla cometa di Halley)

 

 

 

 

 

 

All’inferno andata e ritorno

L’aveva in pugno, ma è andato a tanto così dal perderla per poi vincerla, una partita che è la resurrezione di un uomo capace di lottare contro il destino avverso

Ve lo confesso, il pezzo era pronto,

la seconda rimonta in due giorni consumata nel caldo del deserto californiano, per giunta con quella lunga barba a rievocare immagini messianiche, erano elementi troppo invitanti per non celebrare l’ennesima resurrezione di Sua Santità Roger da Basilea a pochi giorni dalla Pasqua.

Dopo un sabato di passione speso a recuperare un set e tanto gioco alla promettente stellina croata Borna Coric, ecco lo stesso copione ripresentarsi in finale contro “la torre di Tandil” Juan Martin Del Potro, giocatore di ben altra consistenza.

All’inferno andata e ritorno, era questo il titolo suggerito da una partita drammatica, estremamente incerta, che aveva visto per quasi 2 ore il campione svizzero prima soccombere e poi tentare di arginare il ritmo asfissiante impresso dall’argentino.

E quando l’ennesimo rovescio coperto della new age rogeriana è andato a segno rompendo di fatto l’equilibrio del terzo e decisivo set le sembianze dello svizzero hanno iniziato a rivelarsi sulla sua tovaglietta o sudario che dir si voglia, nella pausa tra il nono e il decimo game.

Il copione sembrava già scritto quando lo scenario è mutato, ancora una volta, rivelando la verità tenuta nascosta per oltre 2 ore e mezza di gioco.

Cinque minuti, il tempo necessario a Delpo per tornare dall’aldilà di 3 palle match prima di assestare il micidiale “uppercut”, un dritto inside-out da destra verso sinistra che rendeva vano e al tempo stesso umano ogni tentativo di recupero di Federer, al quale non rimaneva che assistere all’assolo argentino di lì alla fine.

64 67 76 e primo meritatissimo Master 1000 in carriera portato a casa a 29 anni e dopo quattro interventi ai polsi, uno al destro e tre al sinistro, roba da far vacillare anche le convinzioni dei più caparbi.

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Juan Martin Del Potro nel marzo 2014, dopo il primo dei quattro interventi al polso

Non ci posso credere, sono così felice di essere tornato a giocare a questi livelli. Ho stupito me stesso, ora voglio stupire il mondo del tennis. Ho vissuto momenti durissimi, voglio non pensarci più. Sto cercando di vivere la mia vita al massimo, giocando al meglio delle mie possibilità ovunque.

E’ questa dunque la vera resurrezione da celebrare, la rinascita di un campione sfortunato che avrebbe meritato di più dal proprio talento, ma che ora, passata la tempesta, sembra l’unico in campo capace di tener testa al numero uno del tennis.

Lunga (seconda) vita Delpo, ci vediamo a Miami, magari la domenica di Pasqua.

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Il messaggio di Davide

Quando non riusciamo a dare una spiegazione logica a ciò che accade a un passo da noi, è come se ci sentissimo “traditi” dalla stessa nostra esistenza.
Tutto questo fa impressione rendendoci muti, ma…

Quando non riusciamo a dare una spiegazione logica a ciò che accade a un passo da noi, è come se ci sentissimo “traditi” dalla stessa nostra esistenza.

Tutto questo fa impressione rendendoci muti.

La notizia della scomparsa di Davide Astori ha avuto questo effetto su di me, mi ha lasciato senza fiato e senza forze, ancora una volta la vita mi ha sorpreso con una delle sue deviazioni dai binari della felicità che tutti vorremmo percorrere senza sosta, ed ora quello che solo riesco a fare è starmene muto in un angolo, con le paure che affollano i pensieri e le preoccupazioni che riaffiorano a pochi mesi da un’altra perdita importante per me e per i miei affetti più cari, avvenuta in circostanze analoghe a quelle che hanno portato via il povero Davide.

Ma anche i passaggi più bui e dolorosi della nostra esistenza nascondono un messaggio profondo, di speranza, che ha il diritto di essere riportato in superficie e svelato agli occhi di molti, anche di chi non vuol vedere o di chi non vuol credere che sia così.

E così ho udito questo messaggio attraverso il silenzio irreale degli stadi, l’ho visto nelle maglie dai diversi colori strette intorno allo stesso dolore, ed ho provato l’emozione attraverso la magia di una canzone cantata da chi non c’è più da sei anni, lui nato quel quattro di marzo in cui un altro cuore ha invece smesso di battere.

Interrogarsi sullo stupore della vita e godere appieno di ogni suo momento

mi piace pensare sia questo il messaggio che Davide ci ha lasciato in eredità, un messaggio libero di volare proprio come fa una rondine che si infila nel mondo degli uomini per guardarli da vicino.

Grazie a Lucio per questa poesia

Vorrei entrare dentro i fili di una radio
e volare sopra i tetti delle città
incontrare le espressioni dialettali
mescolarmi con l’odore del caffè
fermarmi sul naso dei vecchi
mentre leggono i giornali
e con la polvere dei sogni volare e volare
al fresco delle stelle, anche più in là

Sogni, tu sogni nel mare dei sogni.

Vorrei girare il cielo come le rondini e ogni tanto fermarmi qua e là
aver il nido sotto i tetti al fresco dei portici
e come loro quando è la sera
chiudere gli occhi con semplicità.

Vorrei seguire ogni battito del mio cuore
per capire cosa succede dentro
e cos’è che lo muove
da dove viene ogni tanto questo strano dolore
Vorrei capire insomma che cos’è l’amore
dov’è che si prende, dov’è che si dà
Sogni, tu sogni nel cielo dei sogni

(Lucio Dalla, Le rondini, 1990)

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E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria.

Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami.

Ci si parla, ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.

(Tiziano Terzani)

Uno strano incrocio

Quella bambina che a sei anni sulle nevi di Foppolo sognava , un giorno, di vincere le Olimpiadi..

Da Simone Moro a Sofia Goggia il passo è breve, talmente breve che basta percorrere poche centinaia di metri per poterli incontrare per le vie di Bergamo Alta o le colline della Maresana, quando non sono in montagna ovviamente

“Mamma, ho vinto l’oro alle Olimpiadi!”

Questo il sogno che Sofia si è regalato, un impresa senza precedenti, mai infatti un italiana aveva vinto l’oro olimpico in discesa libera, la regina delle specialità dello sci alpino

Solamente il grande Zeno Colò nel ’52 a Oslo era riuscito a fare altrettanto tra i maschietti

“La vittoria la dedico a me stessa, al mio bel Paese, alle persone che vogliono bene a Sofia indipendentemente dal fatto che vinca l’Olimpiade. Grazie a chi ha creduto ad una bambina che a sei anni sognava di vincere le Olimpiadi sulla neve di Foppolo

Sono una pasticciona, ma oggi ho cercato di essere una samurai”

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Oggi Sofia ha raggiunto l’apice della sua ancor breve e già luminosa carriera di atleta e non è un caso che l’abbia fatto proprio alle Olimpiadi, un evidente appuntamento con il destino

Già, perché quattro anni fa gli Olympic Games di Sochi, li aveva potuti solamente commentare da studio e non correre in pista come avrebbe fortemente voluto

A toglierla letteralmente dai “giochi” un maledetto infortunio subito poco più di un mese prima a Lake Louise. Durante la discesa libera il legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro fece “crack” e con lui i sogni di gloria in terra russa

Dagli studi di un emittente televisiva italiana Sofia commentò la vittoria in discesa della svizzera Dominique Gisin, prima ex aequo (fatto più unico che raro) con la slovena Tina Maze

Oggi la Gisin è commentatrice tecnica della tv svizzera e quando Sofia è passata davanti alla sua postazione è successo qualcosa di davvero emozionante

“Ricordo che nel 2013, di ritorno da Lake Louise, stavo su una sedia a rotelle in aeroporto, una ragazza mi bussò sulla spalla e mi disse di prendere il suo biglietto

Lei era in business, io invece in economy

Quella ragazza era Dominique, sapevo chi fosse, ma non la conoscevo affatto di persona

A quattro anni di distanza, dopo alti e bassi, mille gare, mille sconfitte, dopo tante gioie e dolori, ti ritrovo qui davanti a me

io sto vincendo l’Olimpiade e…e sono emozionata!

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Si abbracciano Sofia e Dominique, ed è un abbraccio spontaneo e pieno di riconoscenza che vale e pesa più di una medaglia d’oro

Ancora una volta

rinunciare non ha significato perdere, ma soltanto rinviare il successo

Da Simone Moro a Sofia Goggia il passo è breve

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